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La fabbrica dei divorzi
Di Libertà e Persona - 17/06/2010 - Divorzio - 1670 visite - 0 commenti

di Massimiliano Fiorin


E poi dice che uno si butta coi preti. La battuta di Giuliano Ferrara non ricalca esattamente quella di Totò, e non poteva essere altrimenti. Il principe De Curtis, infatti, non si prese mai troppo bene con il mondo cattolico, visto che ai suoi tempi le questioni massoniche, ma soprattutto quelle matrimoniali, venivano ancora prese sul serio. Proprio per questo, l’insofferenza dell’Elefantino si adatta assai bene al caso che mi riguarda.
La prima recensione al mio saggio sul divorzio in Italia l’ho ricevuta su Famiglia Cristiana. Nulla di strano, visto che l’editore è lo stesso. Tre pagine intere con il titolo del libro – La Fabbrica dei Divorzi – citato persino in copertina. L’articolo iniziava così: “Un libro che farà discutere molto”. Quando lo lessi, benché fossi sinceramente grato alle Edizioni Paoline, rimasi alquanto scettico, perché ero sicuro che non avrei trovato attenzione al di fuori di quel ristretto circuito culturale.


Di cosa sia diventato il divorzio oggi, la società secolare non ha affatto voglia di discutere. Anzi, persino nel mondo cattolico è palpabile una certa riluttanza nel riproporre la questione. Certo, sussiste ancora l’eroica fermezza di alcuni vescovi, specialmente quelli più vicini a Benedetto XVI. Esistono anche numerosi parroci che riescono ancora a far risplendere barlumi di autentica vita cristiana, tra le famiglie delle loro comunità. Ma in molte altre diocesi e parrocchie – forse la maggioranza – sembrano persino compiaciuti del fatto di “essersi attestati su nuove posizioni”, come recitavano i bollettini di guerra ai tempi dell’Eiar, per non fare capire che le nostre truppe erano state sopraffatte.
In effetti, può sembrare che oggi non abbia più senso continuare a parlare di divorzio, visto che è venuto meno il senso stesso del matrimonio. Forse faremmo meglio a interrogarci su come organizzare l’imminente società post-coniugale.
I più recenti dati Istat ci dicono che in Italia ci si sposa sempre meno, e i figli nati al di fuori di unioni regolari sono già attorno al 20% del totale. L’accelerazione del fenomeno è stata fortissima a partire dall’inizio del nuovo secolo, e le proiezioni ci dicono che nel 2020 i figli nati da genitori non sposati potrebbero essere uno su due. In breve tempo, l’Italia potrebbe anche colmare il ritardo – per così dire – che ancora la divide dal nord Europa o dal Regno Unito, dove già si parla del 75% delle nascite fuori dal matrimonio.


Anche nel nostro Paese, con qualche residua differenza tra nord e sud, è venuto meno qualsiasi segno di differenziazione sociale tra l’essere o meno sposati. Fino a vent’anni fa era ancora diffusa l’idea dei figli come esito di un progetto di vita che partiva col matrimonio. Ma poi, a partire dagli anni novanta si sono rapidamente invertiti i termini. Dapprima si iniziò a sposarsi quando già erano venuti i figli, quasi a voler coronare il percorso compiuto. Ma anche questa fase è stata ormai superata. I paggetti e le damigelle che assistono felici al matrimonio di mamma e papà sono diventati un reperto vintage, come le voluminose videocassette che ce ne tramandano l’immagine. Oggi non ci si sposa nemmeno più, e i figli rimangono attestati sul tasso demografico dell’1,1 %, il più basso del mondo assieme a quello della Spagna. Se non cambia il trend, il popolo italiano in quanto tale si sta avviando a un’estinzione che non si era verificata in questi termini nemmeno ai tempi delle invasioni barbariche.

Del resto, per certi versi era prevedibile che sarebbe andata a finire così. Joseph Ratzinger (e poi dice che uno si butta coi preti) in alcuni suoi scritti lo aveva previsto con largo anticipo. La riforma protestante, che nel XVI secolo reintrodusse il divorzio nell’esperienza giuridica europea, in fondo non intendeva fare altro che tornare al passato, fino ai tempi di Gesù, quando il ripudio era ammesso dalla legge mosaica come rimedio “alla durezza del cuore dell’uomo”. Invece, quel che si è introdotto in tutto l’Occidente negli ultimi quarant’anni, di pari passo con la rivoluzione sessuale, è stato qualcosa di essenzialmente diverso.


Il primo esempio moderno di no-fault divorce, divorzio senza colpa, è stato introdotto in California nel 1970, sotto il governatorato di Ronald Reagan. Fu la prima volta in assoluto che, in uno Stato moderno, divorziare diventò un diritto soggettivo insindacabile di ciascuno dei coniugi. E’ innegabile che, secondo lo spirito del tempo, avrebbe dovuto trattarsi in particolare di un diritto femminile. Nel mondo nuovo la donna avrebbe dovuto vedersi garantiti gli strumenti legali per liberarsi dalla dipendenza dal maschio. L’aborto fu solo il passo successivo, tanto che la famosa sentenza Roe Vs. Wade è del 1973.
Basta uno sguardo alle date per capire quanto fosse falsa la vulgata laicista sul “ritardo civile” che il nostro Paese avrebbe attraversato in quegli anni, a causa della presenza del Vaticano. La legge Fortuna sul divorzio è infatti anch’essa del 1970, mentre la grande riforma del diritto di famiglia è del 1975. Tra l’altro, per la legge italiana, separazione e divorzio dovrebbero tuttora rappresentare rimedi estremi per le crisi coniugali altrimenti irrisolvibili, e non un diritto soggettivo.
Tuttavia, fin dal principio, di fatto i Tribunali non hanno mai preteso che venissero dichiarate le vere ragioni delle rotture coniugali, accontentandosi di una generica affermazione – anche unilaterale – sulla “incompatibilità di carattere”. Ancora oggi, questa frase che non vuol dire nulla è alla base di quattro separazioni su cinque, e tre divorzi su quattro.


Il millenario istituto del matrimonio è così divenuto, nel giro di un paio di decenni, un negozio giuridico senza più alcun valore né privato né pubblico. Un vero e proprio caso unico del diritto civile, che per il resto si regge ancora sull’elementare principio per cui pacta sunt servanda. In realtà, le promesse del giorno delle nozze – coabitazione, fedeltà, impegno a crescere i figli insieme – oggi non hanno più alcun valore, perché i coniugi non hanno più strumenti per chiederne conto all’altro. La gente comune ha iniziato a percepirlo, e a regolarsi di conseguenza.
E allora, che senso ha attardarsi ancora oggi a parlar male del divorzio in se stesso? Il motivo è che, per quanto nessuno lo dica apertamente, a quarant’anni dalla legge Fortuna la questione non è stata per nulla metabolizzata. Potrebbe sembrare il contrario, se si pensa che nei giorni scorsi a Milano si è persino tenuto il “Salone del Divorzio”, dove si organizzavano servizi vari per i single di ritorno, e si offrivano a prezzi stracciati esami fai-da-te per l’accertamento della paternità. Ma si tratta solo della facciata mediatica, che fornisce copertura al sistema giudiziario. C’è bisogno di lubrificante per impedire che la macchina si inceppi, e con essa il suo fatturato multimilionario.

 
Nella realtà quotidiana, invece, dalla fabbrica divorzista continuano a sgorgare immensi oceani di sofferenza, disagio psicologico, malessere economico. In fondo, si tratta solo di una nuova applicazione della banalità del male di cui parlava Hannah Arendt. Nella catena di montaggio del divorzio, così come avveniva in quella della shoah, ciascuno esegue il proprio compito obbedendo agli ordini ricevuti. Senza porsi il problema del significato e delle implicazioni di quello che fa.
Ogni anno, solo in Italia, i fatti di sangue direttamente connessi alle separazioni genitoriali sono centinaia. I morti sono più di cinquanta all’anno, con punte di oltre ottanta. E se andassimo a indagare anche sui suicidi, i numeri salirebbero vertiginosamente. E’ fuori discussione che i costi umani del divorzio siano molto più sanguinosi di quella prodotti dalla criminalità organizzata. E si tratta solo della punta dell’iceberg di un malessere sociale molto più radicato.


La crisi dell’istituto matrimoniale sta generando depressione, malesseri, e povertà collettiva, in maniera molto più ampia di quanto il mondo del diritto e della comunicazione siano disposti a ammettere.
Gli operatori di questi settori, infatti, lavorano tuttora sulla base delle coordinate culturali di quarant’anni fa. Vedono ancora, cioè, il divorzio come strumento di liberazione individuale, da contrapporre alla struttura irrimediabilmente autoritaria della famiglia patriarcale. Tant’è che, come è avvenuto lo scorso 10 maggio, quando capita che i delitti da divorzio siano due nello stesso giorno, e quindi il fenomeno si imponga alle cronache, l’unico abbozzo di spiegazione che i media riescono a proporre è quella della ancestrale violenza del maschio, che non riesce a tollerare le nuove libertà femminili.


June Carbone, giurista americana, dieci anni fa scrisse giustamente che il diritto di famiglia si sarebbe sempre più evoluto nel senso from partners to parents. In tutto il mondo occidentale, allo Stato gliene sarebbe fregato sempre meno di come i cittadini si comportavano in coppia, ma si sarebbe sempre più interessato di come facevano i genitori. Previsione quanto mai azzeccata, viste le migliaia di perizie che oggi – solo in Italia – vengono stilate riguardo all’idoneità genitoriale di chi si separa in Tribunale.
I costi e le conseguenze di questo modus operandi sono enormi, e contribuiscono all’impoverimento collettivo. Oltretutto, il sistema è ferocemente discriminatorio verso la figura e il ruolo maschile. Al di là della propaganda politicamente corretta, la guerra contro il padre pare essere la vera, persistente, finalità dell’intero sistema, nonché la sua fondamentale chiave interpetativa.


“Le donne si comportano come se avessero di fronte un nemico da distruggere… non è sufficiente l’affidamento dei figli, l’obiettivo vero è negare il partner come padre e come marito”, riconosceva Lia Cigarini, femminista storica e poi avvocato matrimonialista a Milano, in un’intervista del 2004. Da allora a oggi i successi in questo senso sono stati crescenti, grazie a un apparato compiacente che si può giovare non solo del pregiudizio degli operatori giudiziari, ma anche di vere e proprie leggi speciali.
In Italia sono stati gli operatori della Caritas (e poi dice che uno si butta coi preti) i primi a accorgersi del problema. Senza aspettarselo, hanno rilevato come stia crescendo sempre più la presenza dei padri separati tra i frequentatori delle loro mense e dormitori pubblici. E’ un esercito invisibile di disperati, che a causa dell’assegnazione della casa familiare alla moglie si sono ritrovati sulla strada nel giro di un mese, e con lo stipendio più che dimezzato.


Le false denunce di pedofilia e di violenza sessuale, poi, sono diventate un vero e proprio affare per chi non ha scrupoli a ricorrervi. Il criminologo Luca Steffenoni, nel suo recente saggio “Presunto Colpevole” (ChiareLettere), ha individuato che solo il 17 per cento delle denunce di questo tipo si trasformano poi in condanne, sulle quali peraltro ci sarebbe molto da discutere. Quattro denunce su cinque provengono proprio dall’ex coniuge o convivente. Alcuni magistrati hanno iniziato a riconoscere apertamente che buona parte di queste denunce è strumentale, e finalizzata a mettere nell’angolo la controparte nelle cause civili per la separazione.


Gli effetti della persecuzione del padre, ad opera del sistema divorzista, sono già esplosi. Hanno cominciato a indagarli negli Stati Uniti, nel corso degli anni '80. Agli Americani, si sa, piacciono i numeri e le statistiche, mentre invece noi Europei i dati preferiamo interpretarli. Ma i crudi numeri raccolti dall’US Department of Health and Human Services ci dicono che l’assenza del padre dal nucleo familiare in cui si è cresciuti è un fattore che ricorre più di tutti gli altri, rispetto ai casi di abbandono scolastico, alcolismo e droga, gravidanze precoci, depressione, suicidi, disoccupazione cronica, fino a arrivare alle situazioni più gravi di criminalità. Eppure, nonostante il sangue che scorre, l’impoverimento collettivo, i malesseri gravi dei soggetti coinvolti, l’ondata di emarginazione, ancora non si riesce a porre la questione nei termini di una vera emergenza sociale. E nemmeno a avviare un serio dibattito sul significato che, ancora oggi, potrebbe avere l’istituto del matrimonio. Perché, in fondo, il vero motivo per cui oggi tante coppie divorziano – e i più giovani non si sposano nemmeno – è perché sono incoraggiati a farlo. Il sistema li favorisce in tutti i modi. Gli avvocati sanno bene che un numero crescente di separazioni, specie tra le coppie di età più avanzata, non nasce da una vera rottura del loro legame,ma ha motivazioni patrimoniali e tributarie. Serve a godere dei vantaggi non da poco di cui godono i single, specie rispetto al fisco, alla proprietà immobiliare, o anche ai servizi sociali riservati ai cosiddetti “nuclei monoparentali”.


Si può dire che il welfare state, per come lo abbiamo praticato in Italia negli ultimi quarant’anni, sia stato un potente alleato della crisi del matrimonio. Se i trentenni italiani di oggi non si sposano, ma nemmeno fanno scoppiare una nuova contestazione, forse è perché hanno troppe gatte da pelare. I loro genitori hanno costruito per se stessi un sistema che ha lasciato sulle loro spalle un operosissimo debito pubblico, e in proiezione un’ancora più spaventoso debito pensionistico. La generazione sessantottina oggi si sta godendo pensioni relativamente da favola, dopo avere accumulato risparmi, investimenti e proprietà immobiliari, che per i loro figli e nipoti rappresentano un autentico miraggio. Del resto, anche senza scomodare le statistiche, alzi la mano chi oggi ha meno di quarant'anni, e avrebbe mai potuto mettere su famiglia senza farsi aiutare dai suoi.


D’altra parte, i bamboccioni sono anche la prima generazione che è diventata adulta dopo avere conosciuto il divorzio di massa dei propri genitori. Anche questo probabilmente ha giocato un ruolo decisivo, sul piano psicologico, rispetto al loro attuale marriage strike.


E allora che fare? Negli USA alcuni stati federali hanno cominciato a pensare a risposte anche sul piano giuridico, introducendo la possibilità di scegliere il covenant marriage, con il quale ci si impegna fin da prima delle nozze a non divorziare se non per cause oggettive, e dopo il ricorso alla mediazione familiare. Ipotesi ancora impensabile, in buona parte d'Europa. Però, sarebbe già un bel passo avanti se almeno cominciassimo a liberarci dei luoghi comuni da anni ’70, sui quali ancora si reggono le separazioni facili e le famiglie allargate. Come quello per cui i figli minori sarebbero meno pregiudicati da un divorzio rapido “tra persone civili”, piuttosto che dal crescere assieme a genitori conflittuali, o non più innamorati. Oggi è più facile, specialmente per una madre, convincersi che sia la propria personale felicità a essere necessaria per quella dei figli, piuttosto che il contrario. Ma è un inganno puerile. Basterebbe dunque, tante volte, che gli operatori coinvolti si informassero di più sulle dinamiche delle crisi familiari, e agli interessati ogni tanto sapessero dire la verità. E magari anche qualche no.

 
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