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Speranza, politica e utopia
Di Marco Luscia - 23/08/2011 - Religione - 1289 visite - 0 commenti

La dimensione sociale che la speranza, rivela ha conosciuto storicamente una particolare declinazione nel linguaggio e nella prassi dell’utopia. L’utopia esprime una duplice tendenza: la curiosità per l’avvenire e il desiderio di governarne il futuro allo scopo di realizzare i sogni, le promesse, gli ideali, che si affacciano nel corso della vita, affermandoli come ideali collettivi.

E’ tipico dell’utopia una dimensione di irrealtà che racchiude in se la prospettiva del fallimento. Inoltre le utopie concretamente teorizzate a partire dal Rinascimento, portano nel proprio intimo l’idea di costruire il mondo secondo un determinato progetto stabilito a tavolino. Poco importa che il progetto esiga sacrifici, violenze, scorciatoie, l’importante è che gli ingegneri del futuro possano agire indisturbati.

Ricordiamo al riguardo tutte le grandi utopie politiche, come le città ideali teorizzate da Tommaso Moro o dal Campanella; si rifletta sull’idea di uomo postulata da Rousseau: per lui, come per molti teorici della rivoluzione francese, l’uomo, che per natura era una creatura socievole e buona, era stato corrotto dalla civiltà e dalle leggi. Perciò, la tradizione, il passato, avevano progressivamente separato l’essere umano dalla natura benefica. Questa idea troverà altresì riscontro in molti intellettuali del diciottesimo secolo che faranno della natura un vero e proprio idolo, immaginandola come un organismo perfetto cui l’uomo stesso avrebbe dovuto adeguarsi.

Andava così maturando una sostanziale erosione della libertà umana e del libero arbitrio, che verranno di fatto soppressi dalla logica giacobina successiva gli eventi del 1789. Sino alla grande mistificazione del comunismo che, mosso da ideali di giustizia e eguaglianza, ha preteso l’assoluto, l’amore, lo spirito fraterno, dal semplice sforzo umano immaginando che la storia avrebbe necessariamente realizzato l’obiettivo di un mondo riconciliato. Il marxismo fu indubbiamente animato da una potente carica di speranza, riposta nel futuro, un futuro per la cui realizzazione ogni atrocità fu ammessa.

Le utopie politiche partono tutte da una negazione del dato reale primario; la finitezza dell’uomo, il suo essere indigente. Negando questo dato di realtà presumono di ricostruire la natura umana attraverso un gigantesco sistema di controllo e di indottrinamento. Esse, nella misura in cui assolutizzano l’uomo facendolo il padrone della natura e del futuro, negano Dio, riponendo la speranza nella pura forza umana. E’ evidente come, se anche un progetto politico si realizzasse in ogni sua parte, seppure eliminassimo ogni ingiustizia, nulla avremmo detto del senso della vita. Ma soprattutto, dimenticheremmo la speranza che ha animato i miliardi di uomini che hanno preceduto e sono morti in attesa del “regno messianico” promesso dai teorici della rivoluzione. Insomma, la speranza d’eterno o è garantita a tutti oppure essa risulta assolutamente insoddisfacente, posto che nessuno ha mai avvicinato nel concreto la supposta società giusta.

Su questo argomento, il Papa, nella sua ultima enciclica Spe Salvi osserva : “Chi promette il mondo migliore che durerebbe irrevocabilmente per sempre, fa una promessa falsa; egli ignora al libertà umana. La libertà deve sempre di nuovo essere conquistata per il bene. La libera adesione al bene non esiste mai semplicemente da sé. Se ci fossero strutture che fissassero in modo irrevocabile una determinata -buona- condizione del mondo, sarebbe negata la libertà dell’uomo, e per questo motivo non sarebbero, in definitiva, per nulla buone.”

Oltre alle utopie politiche oramai in totale declino, esiste oggi, una falsa speranza alimentata dal mito della scienza. L’uomo attraverso l’idea del prolungamento della vita è costantemente sollecitato a credersi immortale, a rivendicare una vita senza limiti, senza dolore, malattia, morte. Tutto questo, come mi sembra di avere mostrato, uccide l’atteggiamento realisticamente umano che alimenta la speranza.

Un uomo siffatto, che si affidi solo alla tecnica, finisce per farsi irretire da ogni promessa, anche la più irrealistica. Per esempio, se deve soccombere, vuole decidere come e quando; possibilmente in modo improvviso e inconsapevole; e qualora disponga di denaro, si fa ibernare, in attesa di un farmaco che gli restituisca la salute. Tutto ciò che può, lo chiede, lo pretende e quando le forze sembrano impossibilitate a dare una risposta, stacca la spina. Questo uomo non ha nessuna umiltà, se solo la avesse, in lui potrebbe riaccendersi il lume della speranza che è prima di tutto riconoscimento del dono della vita, del suo senso, della sua bellezza, ma pure della sua finitezza.

Ma l’uomo contemporaneo è un di-sperato, perché ha perso il proprio centro, o meglio, perché cerca la risposta dove non potrà trovare che cenere e vane parole. L’utopia della felicità che nulla costa, della liberazione dalla malattia, dall’imperfezione, dal limite, non esprime il sentimento della speranza, ma la sete di dominio. E perciò non appena la realtà presente il conto, l’uomo della contemporaneità dispera, fugge, sprofonda nel nichilismo.

La prospettiva escatologica come via di uscita.

La speranza nelle grandi utopie politiche e la speranza riposta nella scienza, non appagano dunque l’uomo; anzi, entrambe non dicono nulla relativamente al male del singolo, alla morte del singolo. E questo perché chi confida solo nella politica, annegando il soggetto nella “collettività riscattata”-come fa il marxismo-, dimentica il protagonista della vita: cioè il singolo uomo. Invece il tecno-scientismo illudendo l’uomo di vincere la morte, magari per mezzo di protesi e manipolazioni, allontana la persona umana da ogni realtà ritenuta sgradevole, restringendo pericolosamente lo spettro dell’esperienza. Quest’ultima, in tal modo, si riduce ad un fascio di sensazioni ed emozioni, possibilmente forti. La stessa società dei consumi, attraverso il costante stimolo al piacere e alla novità, distrae l’uomo dal proprio centro, creando un mondo apparente, fittizio, che prima o poi rivela di poggiare sul niente. Ecco perché la speranza muore; ecco perché la stessa morte è banalizzata, spettacolarizzata, affinchè nessuno possa interrogarsi e capire quanto sia fallimentare la cultura materialista.

Ma l’uomo è più della materia, ed è più del collettivo. Egli è unico e la speranza riguarda ciascuno di noi, il destino nostro dei nostri genitori e dei nostri figli. Prendendosi gioco del sogno collettivista come forza capace di generare speranza Solzenicyn ironizza dalle pagine del suo capolavoro; Padiglione Cancro, “Perché, insomma, noi che cosa andiamo ripetendo continuamente all’uomo? Tu sei membro di un collettivo. Tu sei membro di un collettivo. E’ vero. Ma questo vale fintanto che è vivo. Ma quando viene il momento di morire, noi lo lasciamo uscire dal collettivo. Si, è un membro, ma morire, deve morire da solo. E il tumore colpisce lui solo, non tutto il collettivo.” L’uomo vuole una speranza che lo riguardi personalmente. Nel momento del bisogno non ne vuol sapere dell’umanità, del valore partito o della civiltà che avanza.

Egli vuole una parola di vita che lo salvi, personalmente. Questa è l’unica speranza che in tali situazioni sembra valere. L’uomo dunque, non può che postulare come unica via d’uscita dalla lacerazione che avverte in sè, Qualcuno che possa garantire e salvare tutto il nostro essere, tutte le nostre speranze, tutti i nostri limiti, trasformandoli in qualcosa che permane. E’ questa la dimensione del divino. Per il credente il non senso, si riscatta e si integra nel mistero di Dio che tutto avvolge. La morte personale e collettiva dell’uomo pone lo stesso di fronte ad un bivio, o cercare il riscatto nel mondo, o affidarsi a Dio, nella consapevolezza che il senso è donato, proviene da Qualcuno, è il frutto di un Incontro. Il cristianesimo ha in tal senso il compito di far fiorire un assoluto stupore nei confronti della vita e di un Dio che entra nella storia. E’ questa la radice ultima della speranza umana. (da: Santi e rivoluzionari, Sugarco)

 
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