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Quando i preti parlano di politica spicciola...
Di Francesco Agnoli - 30/09/2009 - Religione - 1317 visite - 0 commenti

Un giorno leggo che il papa invita i vescovi a sfuggire “litigi” e “correnti”, e i sacerdoti a “evitare il coinvolgimento in prima persona nella politica italiana”. Poi apprendo che un vescovo molto importante ha accennato al fatto che sarebbero “in vista nuovi assetti politici”, lanciandosi così nel ruolo di politologo-futurologo che non mi sembra competergli. In contemporanea, sfogliando i giornali, noto l’ennesima dichiarazione di un altro monsignore che emette pareri non meno frequenti, benché meno ponderati, di quelli del ministro degli interni; leggo, altrove, che un gesuita usa le pagine della Civiltà Cattolica per spiegare che le prospettive centriste di Casini non hanno futuro, perché il bipolarismo è ormai assodato…e mi chiedo, anche qui, se queste discussioni siano il passatempo più opportuno per un sacerdote...

Poi prendo in mano Famiglia Cristiana e leggo don Sciortino, che una volta attacca il ministro Gelmini, l’altra, per par condicio, l’ottimo Carlo Giovanardi; un’altra ancora, utilizzando il giornale che dirige per i suoi personali rancori politici, e adottando un linguaggio inverecondo, specie per un sacerdote, spiega che i politici leghisti sono di per sé il culmine dell’ignoranza e della stupidità (“chiedere ad un politico leghista di leggere i ‘Promessi sposi’ del gran lombardo Alessandro Manzoni, è chiedere troppo”). Mi accorgo così che nelle parrocchie italiane entra ancora oggi il settimanale che con don Zega faceva la guerra alla morale cattolica, e che con un altro direttore usa la morale cattolica per fare la guerra a Berlusconi: che diviene l’Innominabile, il “Principe”, il “burattinaio della tv”, un “satiro della politica” e magari - visto che per la bisogna si è riscoperta pure la purezza, mancante dai giornali cattolici e dai pulpiti, da circa trent’anni-, Satana stesso (così si ritorna anche a quell’altra verità di fede ormai desueta, che è l’idea nel demonio come essere personale). A questo punto, uno che frequenta da sempre la Chiesa e per quanto può la difende dalle mille calunnie che il mondo le riserva, è percorso da un desiderio terribile: divenire un pochettino anticlericale.

 L’istinto cresce quando costui apprende, nell’ordine: che sul suo blog tale don Giorgio de Capitani, ultimo in ordine di tempo di una sfilza di preti da corsa, commenta la morte dei soldati italiani definendoli dei “mercenari”; che un gruppo di preti baldanzosi ha firmato alla maniera sessantottina l’ennesimo appello-manifesto, urlato come si conviene, contro Tizio e Caio, sulla rivista Micro Mega; che la rivista Nigrizia, ormai lontanissima dallo spirito di Daniele Comboni, ospita gli articoli di Gad Lerner, che sono comunque sempre un po’ meno sociologici, un po’ meno politicizzati, e un po’ più “spirituali”, di quelli di padre Alex Zanotelli…. Ecco, sarò franco: a me questi preti e vescovi che stanno a pontificare, troppo spesso, di politica spicciola, che fanno previsioni sui possibili eventi partitici futuri, che discettano di bipolarismo, che si discutono con tanta frequenza di Berlusconi, di Obama o di Bersani, mi fanno capire perché poi ci sono coloro che ne approfittano per urlare alla lesa laicità ogni momento del giorno e della notte, al solo scopo di propagandare la loro cultura di morte. Ma soprattutto mi fanno comprendere perché le chiese si svuotano e i cattolici impegnati in politica sono, di solito, i più lontani dal vero magistero della Chiesa (vedi Giorgio Tonini, Rosy Bindi, Dario Franceschini ecc…).

L’origine di questa smania mondana mi sembra di scorgerla negli anni del Concilio, in quella che Benny Lay, nel suo “Il mio Vaticano”, chiamava la “vanità di questi padri sinodali che amano la divulgazione giornalistica delle proprie tesi”. I “periti conciliari, teologi e moralisti, notava il vaticanista, assumono il ruolo di personaggi usciti dalla penombra delle biblioteche, quasi divi…”, disposti a discettare di tutto, ma più del mondo che della cose di Dio. Purtroppo, con il post concilio e poi, successivamente, con la cultura sessantottina, è nato un nuovo modo, deleterio, di intendere la vocazione religiosa: tutto immanente, concentrato solo sulla solidarietà materiale, sulle vicende mondane, sulle analisi sociologiche, che ha reso tanto cattolicesimo contemporaneo terribilmente simile al marxismo. Di pari passo, ovviamente, sono venuti perdendo importanza la preghiera, la liturgia, la confessione, tutto ciò che ha a che fare veramente con l’essenza del sacerdozio. Si è passati, per usare uno slogan dei cattolici del dissenso di allora, “dalle messe alle masse”, salvo poi perderle entrambe.

Penso che sia proprio constatando questa tragica situazione che Benedetto XVI, che non omette certo di prendere posizione pubblica sui valori fondamentali, ha voluto proporre un anno sacerdotale dedicato al santo curato d’Ars: un uomo che passava la sua vita tra l’altare, la canonica e il confessionale. “I metodi pastorali di san Giovanni Maria Vianney, scrive il papa, potrebbero apparire poco adatti alle attuali condizioni sociali e culturali”: ma non è così! Non c’è modo più alto di fare il sacerdote, non c’è maniera più efficace di fare “politica” cristiana, che dedicarsi a Dio, formando così laici che siano capaci di portare nella società e nella vita di tutti i giorni l’esempio di Cristo. I sacerdoti imprudenti, politicanti, chiacchieroni, invece, che amano fare gli opinionisti della domenica, che antepongono i giornali ai confessionali, non solo dimenticano la propria vocazione, ma danno scandalo, e abbassano terribilmente, nella gente, la concezione della Chiesa. Il Foglio, 24/8/2009

 
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