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La rivoluzione francese: letture critiche dell'alba della modernitą.
Di Francesco Agnoli - 09/05/2009 - Storia moderna - 10623 visite - 0 commenti

 

La Bastiglia aprì la via al Gulag

 

 

Fa discutere il volume sulla Francia giacobina. Culla della moderna democrazia o feroce strage? Gli autori: la politica della ghigliottina è l’antenata del comunismo.

 

«Il governo rivoluzionario è debitore, nei confronti dei buoni cittadini, di tutto l’appoggio della nazione, mentre ai nemici del popolo deve nient’altro che la morte». Così Robespierre difese il Terrore il 25 dicembre 1793, davanti alla Convenzione nazionale. Cosa fu il Terrore: necessaria difesa della Repubblica o macchina di morte manovrata da una élite sanguinaria? Deviazione dai princìpi del 1789 che ispirarono la "Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino" o loro figlio legittimo?

Un libro appena uscito in Francia riapre la discussione. "Le livre noir de la Révolution francaise" (Editions du Cerf, pp. 882, euro 44) richiama ovviamente quel "Libro nero del comunismo" che una decina d’anni fa fu accolto con fastidio dall’intellighenzia progressista europea. Non a caso uno dei 47 studiosi che ha dato vita a questa monumentale opera collettiva è Stéphan Courtois, curatore di quell’atto d’accusa al totalitarismo "rosso".

Questa volta si tratta di rimettere in prospettiva il fenomeno storico, pressati da una domanda: perché una Rivoluzione che si pretendeva figlia dei Lumi e di Voltaire (quello che diceva «non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire») finì per celebrare le virtù della ghigliottina?

Per rispondere all’interrogativo, i contributi dei vari autori smontano pezzo per pezzo il puzzle costruito dalla mitologia républicaine. I massacri della Vandea, anzitutto. I contadini di questa regione insorsero, nel marzo 1793, contro la decisione della Convenzione di arruolare a forza 300 mila uomini da gettare nella guerra contro Austria e Prussia. Un rapporto della Convenzione diceva a chiare lettere che «non c’è alcun mezzo di riportare la calma in quella regione che facendone uscire quelli che non sono colpevoli, sterminandone il resto, e rimpiazzandolo con dei repubblicani che difenderanno il loro Paese».

Perfino Bertrand Barère, il membro "ondeggiante" del Comitato di Salute pubblica, perde il suo proverbiale sangue freddo e intima: «Distruggete la Vandea!». Il generale in capo dell’Armata dell’Est, Turreau, conferma gelido: «La Vandea deve diventare un cimitero nazionale». Il giacobino Jean-Baptiste Carrier esplode quasi esasperato: «Che non ci si venga più a parlare di umanità verso questi feroci vandeani: devono essere tutti sterminati!». E sterminio fu. Si portano in giro le teste mozzate.

 Jean Tulard, docente alla Sorbona e all’Istituto di Studi politici di Parigi, fra gli autori del "Livre noir", ha spiegato in un’intervista alla rivista AF2000: «Il Terrore è irriducibile agli "eccessi". Dal 14 luglio, quando la folla porta a spasso la testa di Launay (governatore della Bastiglia, ndr), ha il solo scopo di azzerare le resistenze. Quando si conducono i condannati dentro una carretta per chilometri prima di arrivare al patibolo, noi abbiamo già a che fare con un sistema terrorista».

Anche gli annegamenti degli oppositori a Nantes (circa 3 mila persone), pianificati dallo stesso Carrier che inneggiava al macello in Vandea, furono "dissuasivi": «Quando i pescatori seduti sulle rive della Loira hanno visto passare i cadaveri a pelo d’acqua hanno dovuto temperare i loro sentimenti contro-rivoluzionari».

C’è naturalmente la persecuzione contro la Chiesa. Migliaia di teste cadute all’interno del clero "refrattario", quello cioè che non aveva prestato il giuramento di fedeltà al documento di "Costituzione civile del clero" approvato dall’Assemblea Costituente nel 1790. 

 In parallelo, la furia rivoluzionaria si accanì anche contro il patrimonio artistico francese, colpevole di rinviare troppo all’Ancien Régime. A Parigi ne fecero le spese la chiesa des Bernardins, la biblioteca di Saint-Germaindes-Prés, le statue dei re sulla facciata di Notre Dame. Le ceneri di molti grandi uomini furono gettate nella Senna o nelle fogne. Anche quelle di Montesquieu, non a caso teorico dello Stato liberale basato sull’"equilibrio" dei poteri.

Altro tasto su cui battono gli autori del "Livre noir": le analogie con i totalitarismi del Novecento, il nazismo ma soprattutto il comunismo di stampo sovietico. Sistematizzazione della politica del Terrore, omicidi delle famiglie regnanti, attacchi contro i religiosi, utilizzo della guerra per militarizzare e purgare la società, sacralizzazione della violenza.

Tutte arti in cui i bolscevichi andranno oltre, ma fu Lenin a richiamare il precedente come esempio da superare: «La ghigliottina non era che uno spauracchio che spezzava la resistenza attiva. Questo non basta. Noi non dobbiamo solo spaventare i capitalisti, cioè far loro dimenticare l’idea di una resistenza attiva contro di esso. Noi dobbiamo spezzare anche la loro resistenza passiva». Dalla ghigliottina al Gulag.

Ovvio che tesi del genere abbiano scatenato un polverone Oltralpe. Dove la retorica repubblicana è bipartisan. Anche Le Figaro, giornale della destra francese, ha stroncato le "Livre noir", chiedendosi: «Lo spirito totalitario non è morto. Bisogna prendersi il rischio di risvegliarne il cadavere rianimando un dibattito che era stato vinto (una volta tanto) dal campo liberale e chiarito?». La risposta alle polemiche Il radical-chic Le Nouvel Observateur ha invece attaccato frontalmente il libro, con lo sferzante titolo "Non, Danton n’est pas Hitler!" (No, Danton non è Hitler), pur ammettendo che c’è un fondo di verità.

Alle critiche ha risposto tra gli altri lo storico Jean Sévillia, autore di uno dei contributi al testo: «L’iconografia ufficiale, quella dei manuali scolastici, quella della televisione, mostra gli avvenimenti del 1789 e degli anni seguenti come il momento fondatore della nostra società, cancellandone tutto ciò che vogliono occultare: il Terrore, la persecuzione religiosa, la dittatura di una minoranza, il vandalismo artistico».

Da cui l’idea-base del "Livre noir": «Mostrare l’altra faccia della realtà e ricordare che c’è sempre stata un’opposizione alla Rivoluzione francese, ma senza tradire la Storia».

La Storia, per inciso, dice che dal caos rivoluzionario scaturì il primo dittatore moderno, Napoleone Bonaparte. (Da: Libero del 9 marzo 2008)

 

2 La verità sulla presa della Bastiglia.

 Quattro falsificatori di moneta che se la diedero subito a gambe. Due pazzi pericolosi che, scambiati per «filosofi» e, dunque acclamati sulle prime come «vittime della repressione», furono rinchiusi, chiarito l'equivoco, in un manicomio. Un maniaco sessuale: un giovane depravato allievo del marchese de Sade, messo dietro le sbarre per richiesta della sua stessa famiglia. Sette detenuti che sarebbe difficile definire «politici». Sette «perseguitati» assai improbabili.

Eppure, è sulle loro miserevoli spalle che, da due secoli, grava il mito della presa della Bastiglia da parte del popolo parigino, con conseguente liberazione di prigionieri che sarebbero stati tragico simbolo dell'assolutismo monarchico. In realtà, i quattro falsari, i due matti e il depravato erano i soli ospiti della fortezza-prigione quando fu assalita, nella tarda mattinata del 14 luglio 1789. La storiografia da manuale scolastico data ancora da quel giorno l'inizio del "mondo nuovo".

A duecento anni di distanza un grandioso corteo, con rappresentanze di tutto il mondo, sfila a Parigi, per ricordare il giorno glorioso, davanti a François Mitterrand (che della "Grande Révolution" si considera figlio diretto e legittimo). Sarà dunque bene vaccinarsi, una volta per tutte, con quei vigorosi antidoti alla retorica che sono ironia e senso critico, del tutto legittimi davanti al mix di ridicolo e di orrore che fu la vera «presa della Bastiglia». Si sa che ogni rivoluzione ha bisogno vitale di un «mito di fondazione» che, di solito, viene identificato in una «presa»: la «presa della Bastiglia», ma anche la «presa» di Roma per il Risorgimento, la «presa del Palazzo d'inverno» per il regime marx-leninista in Russia.

Quanto alla Pietroburgo del 1917, chi un poco frequenti la storia sa bene che non ci fu alcuna «presa» e che la residenza della corte, abbandonata da mesi dallo Zar, fu occupata da un piccolo gruppo di bolscevichi praticamente senza colpo ferire. Realtà, naturalmente, ben diversa dai manifesti, dai film, dalle cronache magniloquenti dei successivi settant'anni.

Quanto a Roma nel settembre del 1870, è noto che, ai suoi meno che quindicimila uomini, Pio IX aveva dato l'ordine di «sottrarsi al contatto con l'invasore, concentrandosi nella capitale». Così il papa al suo comandante, generale Kanzler. Quando, a partire dal 18 settembre, Roma fu assediata, l'ordine pontificio fu: «Il minimo di resistenza, possibilmente senza alcuno spargimento di sangue, solo per significare al mondo che si cede alla violenza. Appena aperta la breccia, alzare bandiera bianca e inviare una delegazione per la resa». In effetti, in due giorni e due notti di "assedio" non fu sparata che qualche fucilata casuale, con due morti e qualche ferito. Aperta a Porta Pia la breccia, il 34° reggimento bersaglieri si arrampicò sulle macerie. Vi fu un solo morto, il maggiore Pagliari che era alla testa, per un colpo partito a un franco tiratore che aveva disobbedito agli ordini, mentre i battaglioni pontifici si concentravano, con le armi al piede, in piazza San Pietro.

In dieci giorni di "guerra", i 60.000 soldati italiani di Raffaele Cadorna avevano perduto 32 uomini, morti per incidenti vari compresi: una percentuale di 0,5 caduti ogni mille soldati. Si sa che, in un qualunque week-end di oggi, i deceduti per incidenti stradali sono proporzionalmente assai di più.

La «presa» della Bastiglia, al ridicolo aggiunse anche la crudeltà che, purtroppo, in futuro avrebbe dato il suo frutto avvelenato. Ridicolo, il fatto che in quel «simbolo dell'oppressione» non ci fossero che prigionieri che elencavamo. Ma, ridicolo, anche il fatto che l'Assemblea Nazionale rivoluzionaria manifestasse il suo solenne sdegno, quando le furono mostrate «le orribili e sconosciute macchine da tortura» trovate all'interno della fortezza. Fu esibito quello che il relatore, Dussault, presentò come «un corsetto di ferro per stritolare le articolazioni». Nessuno osò dire che si trattava di un'armatura medievale conservata nel museo di armi antiche che proprio alla Bastiglia aveva sede. Si esibì anche «una macchina non meno infernale e distruttiva», ma così segreta che non si riuscì a spiegare in che modo torturasse. Saltò poi fuori che era una pressa sequestrata tre anni prima a un tipografo che stampava pubblicazioni oscene.

Si proposero allo sdegno del popolo anche «le ossa degli sventurati, giustiziati in segreto nelle celle». Pure qui, solo anni dopo qualcuno ebbe il coraggio di ricordare che gli scheletri erano quelli dei suicidi parigini che, non potendo essere sepolti in terra consacrata, erano deposti in un cortiletto interno della fortezza. Fu infine compilata una lista ufficiale dei "vincitori della Bastiglia": risultarono 954 nomi che, oltre a una pensione vitalizia, ricevettero il diritto di portare una divisa con l'insegna di una corona di gloria.

Solo molto dopo un'inchiesta rigorosa stabilì che, poiché agli eroi era stato permesso di testimoniare l'uno per l'altro, senza alcun'altra prova, più della metà dei valorosi non aveva partecipato al fatto. Il ridicolo, certo: ma anche l'orrore per il seme di sangue che fu deposto quel giorno e che dovrebbe rendere ancora più perplessi sull'opportunità delle celebrazioni. Il governatore della Bastiglia de Launay, invitati a pranzo i capi degli assalitori (e anche questo invito a mensa dà il clima dell'"epica giornata"...), aveva ricevuto da essi la parola d'onore che, arrendendosi senza difesa, avrebbe salvato la vita sua e degli "invalidi", i vecchi soldati ai suoi ordini. Fu, invece, massacrato a tradimento. Si chiese l'intervento di un garzone di macellaio (perché, dicono le fonti, «sapeva lavorare le carni») per staccarne la testa dal busto e portarla in processione infilzata su una picca.

Altra macabra picca per la testa di Flesselles, sindaco di Parigi, che era sopraggiunto per invitare alla calma. Massacrati anche gli altri ufficiali della guarnigione, due invalidi impiccati alle sbarre delle celle; altri torturati in vari modi tra cui il taglio delle mani. Così, proprio in quel 14 luglio dell'anno primo della Rivoluzione, si apriva la diga degli orrori inenarrabili che sarebbero seguiti. Fu il primo sangue dell'onda che avrebbe travolto la Francia e poi l'Europa.

 Al mondo d'oggi che non tralascia occasione per gridare la sua avversione a ogni violenza, per proclamare la necessità della pacifica tolleranza, c'è da chiedere se è davvero il caso di fare così solenne festa per l'anniversario dell'inizio di ciò che avrebbe portato al Terrore e al genocidio vandeano e poi all'Europa spopolata dal "fils de la Révolution" per eccellenza, il Bonaparte. ( da: Vittorio Mesori, Pensare la storia. Una lettura cattolica dell'avventura umana, Paoline, Milano 1992, p. 310-313, citato in www.storialibera.it).

 

3 Intervista a Pierre Chaunu, docente di storia alla Sorbona.

...C'è un un libro in particolare che ha fatto scalpore e ha suscitato violente reazioni: gli è stato rimproverato di usare il termine genocidio a proposito di quelle che non sarebbero state altro che «scaramucce politiche di un periodo sanguinoso». Si dà il caso che questo libro l'abbia introdotto proprio lei e se non sbaglio è suo anche il titolo: «Vandea, un genocidio franco-francese?».


Pierre Chaunu: Sì, la parola genocidio ha scioccato quando la usammo all'inizio, ma ora, prove alla mano, non può non essere riconosciuto come tale. Davanti al montare della marea disinformativa che le ho prima descritto, io ed i miei collaboratori ci siamo detti che bisognava intervenire. È stato così che storici di valore come Raymond Secher hanno lavorato sotto la mia direzione per riprendere in maniera scientifica un certo numero di dossier storici. Si trattava di documenti scottanti, che parlavano di sconvolgenti massacri di cattolici in Francia particolarmente nell'Ovest e in Vandea. Fu quest'ultimo un massacro talmente evidente, talmente premeditato, atroce e sistemantico —fu impartito l'ordine di liquidare le donne perché non potessero procreare, trucidare i bambini perché non divenissero i futuri «briganti»— che non capisco come si possa evitare di parlare di genocidio. La Vandea fu qualcosa di più che un orrendo massacro, fu il tentativo di sterminare definitivamente una popolazione. Vennero date alle fiamme oltre il 40% delle abitazioni e delle coltivazioni: i morti furono centinaia di migliaia su 600.000 abitanti.



Nei libri recentemente apparsi sulla storia della Rivoluzione come quello di Secher o di Frèdèric Bluche («Settembre 1792, logica di un massacro»), quali nuove acquisizioni storiche sono riferite?


Pierre CHAUNU: Alcuni argomenti nella storia della Rivoluzione francese, sono stati più che abbondantemente studiati. Si perdono tempo e soldi a riprendere costantemente gli stessi documenti. Ce ne sono altri invece che sono stati sistematicamente dissimulati, e su essi hanno indagato gli studiosi da lei citati che hanno mostrato l'ampiezza straordinaria dei massacri compiuti sotto la Rivoluzione. E ci sono altri aspetti che vengono abitualmente taciuti. Come il fatto che la Rivoluzione francese ha dichiarato guerra all'insieme dell'Europa e che sono stati i rivoluzionari, non i prìncipi, a volerla. Se si sommano le perdite della guerra e le perdite anteriori, si arriva per un Paese di 27 milioni di abitanti qual'era allora la Francia ad un totale che è nell'ordine di milioni: due milioni e cinquantamila, secondo i primi calcoli a che abbiamo fatto. Sono perdite notevolissime ancora maggiori di quella le subite della Francia nella Prima Guerra Mondiale. Naturalmente tutto questo non ha contribuito alla ricchezza della nazione, senza parlare del fatto che una gran parte delle élites del Paese —e non solo loro— sono state costrette ad emigrare. Per tutte queste ragioni, il bilancio della Rivoluzione è largamente negativo. Personalmente ritengo che si dia troppo spazio ad un avvenimento storico che è durato solo quattro, cinque anni, ma se si vuole a tutti i costi parlarne, allora bisogna dire anche queste cose.

La storiografia in questi due secoli ha posto l'accento soprattutto sulle conquiste della rivoluzione. Secondo quanto lei dice, si tratterebbe di un clamoroso sbaglio: dovuto a malafede, ad errori storiografici, o cosa altro?


Pierre CHAUNU: La storia è stata scritta da vincitori o comunque, in larga misura, da ricercatori con spiccate simpatie per l'ideologia rivoluzionaria, studiosi convinti che la storia avanzi a forza di rivoluzioni e rotture. Ma questa è una concezione insana. La storia è un «continuum», non è fatta di istanti senza rapporto fra loro. Non ho stima per chi pensa di far avanzare le cose distruggendo le radici, le fondamenta. Le rotture sono delle «asinerie ideologiche» che fanno regredire un popolo. La rivoluzione è stata, in tutti i campi, una regressione della nazione.


E l'insieme della cristianità in Francia come è stata trattata dal regime rivoluzionario?


Pierre CHAUNU: Nel modo più oltraggioso e atroce. La persecuzione religiosa subita dai francesi cattolici durante questo periodo non ha equivalenti nella storia se non le grandi persecuzioni del XX secolo. Di tutte la Rivoluzione è stata il modello. La persecuzione religiosa non fu solo persecuzione contro i religiosi ma una rivolta contro il cristianesimo con il preciso intento di decristinizzare la nazione. La maggioranza dei preti è stata assassinata od espulsa, tutte le chiese sono state chiuse per un anno e mezzo ed il loro patrimonio requisito ed incamerato, 250 mila vandeani sono stati massacrati perché volevano andare alla messa e restare fedeli a Roma. Le scuole, gli ospedali, tutte le opere sociali della Chiesa vennero soppresse e non furono rimpiazzate che sulla carta. In Vandea tutte le famiglie, tutte le persone presso le quali si trovasse una cappella un crocifisso o altro furono fucilate, le loro case incendiate. Certo i cattolici francesi hanno avuto a riguardo della modernità e dell'illuminismo un atteggiamento negativo davvero eccessivo, ma è comprensibile: perseguitare un popolo non favorisce la comprensione e la tolleranza.

Quello che non capisco è perché i cattolici francesi di oggi non siano a fianco dei cattolici perseguitati nella storia e soprattutto sotto la Rivoluzione francese. Il perdono non implica l'oblio e nemmeno la collaborazione con i criminali. Non capisco proprio perché e in nome di cosa si neghi la realtà: in Francia ci sono stati centinaia e migliaia di morti, vittime delle loro convinzioni religiose. Hanno lottato, si sono organizzati, ma sono stati massacrati nella maniera più indegna. Quello contro cui io protesto è questo tradimento dei principi di libertà e tolleranza, principi positivi che erano all'origine della Rivoluzione francese ma che hanno avuto un risultato catastrofico.



Perché dei principi nobili si sono ribaltati nel loro contrario? In altre parole, il Terrore era evitabile o è inseparabile dal primo periodo rivoluzionario?


Pierre CHAUNU: I due periodi sono difficilmente separabili. Molto rapidamente il processo ideologico precipita nella dittatura e nella violenza ma praticamente il bicchiere era rotto fin dall'inizio. Certo si resta tolleranti fino al 1790 ma non lo si è più a partire dalla Costituzione civile del clero; dalla fine dell'inverno 1790 il regime è tirannico. Per la prima volta possiamo osservare in azione una strategia di presa del potere da parte di una infima minoranza ideologica che diverrà il modello di gli analoghi fenomeni del XIX e XX secolo, tra cui la rivoluzione russa.

(da:Pierre Chaunu, «Quante idiozie su quegli anni bui!», tratto da: 30 Giorni, anno V, gennaio 1987, p. 14-19).

 

 
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