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La fatica e la bellezza dell'educazione.
Di Francesco Agnoli - 07/05/2009 - Scuola educazione - 1460 visite - 0 commenti

Nella società dei media può nascere un’illusione: che i mezzi di comunicazione siano i più importanti per educare un popolo.

Certamente, questo è in parte vero: la rivoluzione francese, come tutte le altre, sino alla rivoluzione sessuale, sono state favorite da un mare di carte e giornali, prima, e dalla televisione, poi. Ma è anche vero che prima della rivoluzione francese, alba sanguinosa della contemporaneità, c’è un grande fatto, spesso dimenticato: la chiusura, in Francia e non solo, delle scuole dei gesuiti.

E’ contro di esse che si accaniscono anzitutto gli illuministi anticristiani, perché sanno che un ragazzo ben educato può anche essere temporaneamente traviato dalle illusioni politiche, ideologiche, mondane, ma possiede dentro di sé un seme che prima o poi darà i suoi frutti. Oggi occorrerebbe che almeno i cattolici si rendessero conto di questo: che vi è un’emergenza educativa, cui far fronte, in parrocchia, nelle scuole, in ogni ambito possibile. Invece sappiamo quanto, ad esempio il catechismo, che è la prima forma di istruzione per un fanciullo, sia trascurato e negletto. Eppure i cuori e le menti dei giovani sono ancora, come sempre, aperti alla Verità e al Bene: basta solo che incontrino persone credibili, pronte a rendere conto della Speranza che è in loro e a smascherare gli errori e gli inganni del mondo.

Oggi, dicevo, l’educazione è in crisi, per il semplice fatto che non si sa più cosa sia. Educare, per la mia esperienza, significa condurre da qualcosa, verso qualcos’altro. Condurre da una storia, da un passato, da una Tradizione, verso un futuro: e invece tutta la cultura dominante è basata sulla volgarizzazione del passato e sulla derisione della Tradizione. Si crede e si vuol far credere che non vi sia nulla di buono nella storia che ci precede, soprattutto in quella cristiana. Così l’origine della nostra cultura, quel Medioevo in cui sono nate le università, gli ospedali, la tecnica, le banche e le cattedrali, Giotto e Cimabue, viene liquidata con espressioni superbe e volgari: “secoli bui”, “tenebre del Medioevo”.

Non è solo una questione di falsificazioni storiche: in queste espressioni lapidarie è condensata la cultura anticristana e nichilista che desidera tagliare le nostre radici, isolarci dalla Tradizione, fare intorno ad ognuno di noi terra bruciata. Solo così si può far vivere un popolo nel mito sciocco e banale del Progresso, come se non avessimo nulla da imparare da chi ci ha preceduto, e fossimo per ciò completamente auto-sufficienti. Così, in verità, si coltiva solo l’individualismo. Lo sciocco pregiudizio verso il passato ci rende arroganti e presuntuosi: il contrario di ciò che una buona educazione dovrebbe fare. Questo tentativo, come dicevo, di tagliare le radici, è evidente nella scuola odierna: dal modo con cui viene liquidato il medioevo, in storia, alla volontà sempre maggiore di trascurare anche il nostro passato latino e greco, sino alla graduale eliminazione, persino dalle università di filosofia, degli autori cristiani, da Agostino a Tommaso.

Sempre più diventa dunque difficile sapere da dove veniamo. Ma ancor più, dove andiamo. Infatti, perché vi sia educazione, occorre avere una certa idea dell’uomo: occorre che l’insegnante faccia comprendere ai suoi ragazzi che la Verità e il Bene esistono! Che lo studio serve appunto per ricercarli: ricercare la verità storica, la verità matematica, la verità filosofica, e teologica. Andiamo verso ciò che la nostra mente e il nostro cuore desiderano, nonostante il nostro limite: la Verità. Invece il relativismo dominante uccide ogni germoglio di vita: se non c’è nulla di vero, di bello, di buono; se un comportamento vale l’altro; se tutte le filosofie si equivalgono; se la verità e la menzogna si confondono, allora anche la curiosità di sapere, di capire, di pervenire alla verità, viene soffocata sin dal principio nel giovane, che diventa precocemente cinico e indifferente.

Faccio un esempio per quanto riguarda una delle materie che ritengo più formative: la storia. Quando si analizza la storia del Novecento, i testi scolastici omettono di farci capire anzitutto da dove gli abomini del nazismo e del comunismo derivino, per evitare di sottolineare la radice atea delle guerre mondiali, dei lager e dei gulag; dall’altra omettono clamorosamente di indagare cosa ancor oggi rimanga di quelle ideologie (divorzio, aborto, eutanasia ecc), per rispettare il dogma progressista (se ciò è successo, è successo nel passato, ma oggi…); infine, trascurano di raccontarci tutte quelle storie eroiche di persone che hanno dato la vita per aiutare i loro simili, per lottare contro la menzogna, per mantenere viva la carità cristiana, insegnandoci così che la lotta per la Verità è sempre possibile. In questo modo i giovani studiano, senza comprendere nulla, e senza che la storia passata dica loro più alcunché, né sulla miseria degli uomini, nè sulla loro intramontabile passione per il Bene. L’educazione insomma è centrale, e va perseguita con immensa attenzione. In ogni tempo i genitori hanno educato i loro figli, a determinati valori e ad una loro Tradizione.

Si sa ad esempio che l’Iliade e l’Odissea venivano imparate a memoria dai ragazzi greci e costituivano una sorta di “enciclopedia tribale”: tramite quelle storie, si tramandavano valori, culti, ideale del bene, incarnato dall’eroe, e del male…Così ogni giovane greco si sentiva parte di una storia che condivideva con i suoi concittadini, e da quella storia traeva insegnamenti con cui confrontarsi. Se poi leggiamo la storia dei filosofi antichi, vediamo che solitamente cercavano di educare se stessi e i giovani al seguito: Socrate educava i suoi discepoli cercando di farli ragionare sulle verità più importanti. Lo stoico romano Seneca educava se stesso facendo l’esame di coscienza ogni sera. Dovunque vi erano uomini che cercavano maestri di vita e un senso che fondasse la loro esistenza: “Si tratta di sapere, scriveva Cicerone nel ‘De Natura deorum’, se esiste un Dio, se questo Dio si interessa agli uomini e se esiste un legame tra noi e lui. Si tratta di sapere cosa è l’anima umana, se essa ha rapporto con Dio, se viene da lui e ritorna a lui. In breve si tratta della nostra felicità, del nostro tutto”!

Il grande educatore della storia è stato senza dubbio Gesù Cristo. Scelti i suoi discepoli, solamente dodici, che avrebbero trasformato il mondo, li ha condotti passo passo, sgridandoli, talvolta, confortandoli, spesso, e vivendo con loro. Dal suo esempio, innegabilmente, si è generata la tradizione scolastica europea, unica e irripetibile, quella che ci ha dato la Schola Palatina di frate Alcuino e Carlo Magno, prima, e le università poi. Ma il periodo d’oro dell’educazione è stato forse quello del Concilio di Trento.

Messo all’angolo dal protestantesimo e dal suo pessimismo antropologico, secondo cui l’uomo è capace solo di male, e dal predestinazionismo calvinista, il mondo cattolico ha generato scuole su scuole, un ordine educativo dietro l’altro, dimostrando chiaramente che l’uomo non è solamente cattivo, ma anzi, che la sua natura, pur macchiata dal peccato originale, è capace di grandi opere di bene. Tutte le scuole di quest’epoca, da quelle del Calasanzio a quelle di Giovan Battista de la Salle, a quelle dei gesuiti, fondavano il proprio metodo educativo proprio sul realismo cristiano. Per i protestanti, come dicevo, l’uomo è naturalmente cattivo: facile capire che educare, partendo da questa idea di fondo, è piuttosto difficile, un’impresa disperata e poco affascinante. Per i cattolici, invece, l’innegabile tendenza al male, giustificata dal peccato originale, non elimina l’altrettanto evidente volontà di ogni uomo di cercare la Verità e la Giustizia.

Educare significa allora coltivare il desiderio di vero, che c’è in ognuno, cercando di rendere questa verità non solo evidente, ma anche amabile. Questo sarà compreso soprattutto dal più grande educatore dell’Ottocento, Giovanni Bosco. Il suo metodo preventivo si basa infatti su un grande realismo antropologico: ha dinnanzi a sé giovani sbandati, senza famiglia, spesso delinquenti. Potrebbe lasciarsi andare allo sconforto, o alla durezza, invece vede in ognuno di loro un’anima preziosa e potenzialmente capace di grandi cose. Decide di trattarli con la mansuetudine, in modo da metterli, preventivamente, “nell’impossibilità di commettere mancanze”.

Per don Bosco i luoghi dell'educazione sono la cappella, il cortile e la scuola: quest'ultima, appositamente, all'ultimo posto. Occorre anzitutto che i giovani siano amati: "questo avviene nella fusione fraterna del cortile, dove i giovani, sentendosi amati in quelle cose che loro piacciono, cioè nei divertimenti, imparano a vedere l'amore degli educatori in quelle cose che naturalmente loro piacciono poco, quali la disciplina, lo studio, la mortificazione di se stessi, e queste cose imparano a fare con amore".

All’opposto di don Bosco, oggi così dimenticato anche nelle scuole cattoliche, piene di sociologismi e di psicologismi lontani dalla fede, vi è l’idea illuminista che potremmo definire dell’ “ottimismo antropologico”, propagata da Rousseau, pedagogo tanto abile da aver abbandonato tutti e cinque i suoi figli, e dai sui seguaci. Per costoro l’uomo è naturalmente buono, senza peccato originale. Talmente buono da non aver bisogno non solo delle regole, della lotta interiore, e, talvolta, dei castighi, ma neppure dell’amore, delle attenzioni, della premura dell’educatore. I seguaci di Rousseau, propongono il primato della spontaneità più estrema, l’idea che l’uomo sia solo un animale, che quindi non sia chiamato a far crescere e maturare, passo passo, la propria umanità.

Quanto è più affascinante la visione educativa cristiana, così descritta da Benedetto XVI nella sua lettera sull’educazione alla diocesi di Roma del 2008: “Già in un piccolo bambino c'è un grande desiderio di sapere e di capire, che si manifesta nelle sue continue domande e richieste di spiegazioni. Sarebbe dunque una ben povera educazione quella che si limitasse a dare delle nozioni e delle informazioni, ma lasciasse da parte la grande domanda riguardo alla verità, soprattutto a quella verità che può essere di guida nella vita. Arriviamo così, cari amici di Roma, al punto forse più delicato dell'opera educativa: trovare un giusto equilibrio tra la libertà e la disciplina. Senza regole di comportamento e di vita, fatte valere giorno per giorno anche nelle piccole cose, non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare le prove che non mancheranno in futuro. Il rapporto educativo è però anzitutto l'incontro di due libertà e l'educazione ben riuscita è formazione al retto uso della libertà. Man mano che il bambino cresce, diventa un adolescente e poi un giovane; dobbiamo dunque accettare il rischio della libertà, rimanendo sempre attenti ad aiutarlo a correggere idee e scelte sbagliate. Quello che invece non dobbiamo mai fare è assecondarlo negli errori, fingere di non vederli, o peggio condividerli, come se fossero le nuove frontiere del progresso umano…L'educatore è quindi un testimone della verità e del bene: certo, anch'egli è fragile e può mancare, ma cercherà sempre di nuovo di mettersi in sintonia con la sua missione”. Il Timone, marzo 2009.

 
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