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Calasso e il Corriere delle Tenebre: buona gnosi a tutti
Di Mattia Tanel - 14/04/2009 - Cultura e societą - 2247 visite - 0 commenti

Quella tra Adelphi e Corriere della Sera, lo si sa, è una partnership collaudata. Non c’è pubblicazione importante della casa editrice milanese che non venga recensita, commentata o almeno segnalata sulle pagine del colosso giornalistico di via Solferino. Senza dubbio, le comuni frequentazioni ai vertici dei rispettivi dirigenti aiutano a mantenere buoni rapporti: questione di amicizie, e di finanziatori eccellenti. Insomma, aria di famiglia.

Ma al di là di questo, ci si può legittimamente chiedere quale sia l’intentio profundior che collega tra loro questi due indiscussi (e indiscutibili?) bastioni della cultura italiana.

Pare che il Corrierone nazionale sia il quotidiano più letto dai cattolici: la fama di equilibrio e moderatismo che lo contraddistingue, probabilmente, attira quell’ampia fascia di persone serie che si mantiene generalmente aliena dai toni troppo accesi e dalle faziosità più grossolane. Un giornale dall’apparenza sicura, al tempo stesso accessibile e colto: di certo, portandolo sotto il braccio all’uscita dalla Messa domenicale, non si rischiano occhiatacce da parte di nessuno. E pazienza se poi, in realtà, i contenuti proposti siano sottilmente ma metodicamente avversi alla concezione cristiana della vita.

Venendo all’Adelphi. Come non ammirare il perfetto bilanciamento dei suoi volumi, la linea impeccabile delle grafiche, l’accuratezza maniacale degli editing? Per non parlare, poi, dell’indubbia rispettabilità (sociale…) delle pubblicazioni. Quando, nel 1988, venne pubblicato Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso, non ci fu un solo borghese conscio della propria dignità che non lo acquistò e non lo pose nel punto più visibile della propria biblioteca.

Ma… Calasso, appunto. Oggi stesso, martedì 14 aprile, il deus ex machina della “benemerita” casa editrice si vede pubblicata dal Corriere, in due vistose paginone della sezione Cultura, una sintesi dell’introduzione da lui vergata per l’ultima novità del catalogo adelphiano: la traduzione italiana di un vecchio saggio dello studioso ebreo Sylvain Lévi (1863-1935), La dottrina del sacrificio nei Brahmana. L’edizione originale è francese, e data al 1898. Si direbbe che, per ripescare un saggio così vetusto e proporlo con tanta solennità al pubblico italiano del Terzo Millennio, Calasso debba pur avere le sue buone ragioni. Scopriamole.

La titolazione apposta all’articolo dalla redazione del Corriere è già piuttosto interessante: “Viaggio all’origine dell’India. Prajapati, il dio che creò gli dèi. E sarà dimenticato da tutti”. Di cosa si tratta? Come le didascalie si premurano di specificare, il nucleo della questione sta tutto nella “colpa del Padre”, cioè di Dio. Secondo la mitologia indù, infatti, “gli uomini si domandavano perché Prajapati avesse creato ladri, tafani, zanzare… Ma in realtà la creazione era percepita come una grave ferita alla pienezza dell’essere, così tutti sono condannati a cercare di restaurarla”. Il libro di Lévi fa il punto sul contenuto dei Brahmana, “i testi liturgici sull’origine del mondo e il significato del sacrificio rituale”.

Ricapitolando: colpa del Padre – creazione/origine del mondo – ferita – condanna – sacrificio rituale.

Chiarissimo, no?

Se per qualcuno non è abbastanza chiaro, abbandoniamo le titolazioni degli arguti redattori e facciamo lo sforzo di leggere il corposo articolo.

Articolo che, per la sua importanza, inizia addirittura in prima pagina. Calasso va subito al cuore (caldo e pulsante) del problema. I Brahmana, dice, “sono trattati in prosa sul sacrificio (sui molti tipi del sacrificio). Testi al tempo stesso di esegesi liturgica e di metafisica, perché il sacrificio è tutto e parlarne implica dire ciò che è”.

Il sacrificio è tutto, CONTINUA ALLE PAGINE 32 E 33.

Calasso, seriosissimo, ci informa del fatto che “il rito” (sacrificale) tende a “invadere la totalità del tempo”. I Brahmana costituiscono il luogo della “dottrina segreta” indù su quella che sembrerebbe l’essenza sacrificale del cosmo. In questa “grandiosa impresa di interpretazione”, Prajapati è il “personaggio dominante”: Dio, o per meglio dire il primo tra gli dèi. Le sue “vicende” sono “drammatiche”: “suicida, ferito in un agguato, disarticolato, agonizzante, minacciato di morte dal figlio primogenito”.

Ma qual è il vero presupposto dell’“alto e inconfondibile pathos” di Prajapati?

Questo: “Non conosciamo un altro creatore che, al pari di lui, si perda nelle vicende della creazione, si sfibri nei rinnovati, spesso falliti, esasperanti tentativi di dare forma al mondo, di renderlo abitato da esseri pienamente viventi”. Questi “esseri”, infatti, che altro non sono che gli “dèi”, cominciano subito a farsi la guerra tra loro, divisi in due schiere contrapposte di “fratelli nemici”, e “presto dimentic[ano] e accanton[ano] il Padre, figura ormai inutile e sorpassata”. E non sono gli unici a farlo. “In fondo”, commenta Calasso, “gli uomini moderni non furono che gli ultimi a ignorare Prajapati”.

Al termine dell’opera creativa di Prajapati, “la visione che si presenta è un immane disastro”. Prajapati stesso “è sfinito, svuotato. Solitario come all’inizio era solitario, perché le creature si sono subito rivolte via da lui. Il fine dell’opera – gioia e cibo – non è stato raggiunto. Questo è lo sfondo su cui ogni altro evento si delinea: una scena di desolazione e di abbandono, come al termine di uno sforzo vano”.

La teologia della storia che ne consegue è terribile. Scrive Calasso che “tutta la storia, da allora, è il processo con cui Prajapati tenta di reintegrare le sue forze”.

“Mai un dio creatore è stato esposto come Prajapati al tormento, dall’interno e dall’esterno. Mai un essere divino è stato così dipendente dalla sua fisiologia. Dio solitario, ardente, suicidale, sessuale, le sue creature lo trattano con eccessiva familiarità, come se non si fossero ancora del tutto distaccate da lui. La creazione è una sequenza convulsa. Nessuno ha il tempo di fermarsi per onorare il Padre. E presto tutti lo fuggono. Ma come mai le creature abbandonarono Prajapati? Erano appena apparse e il Progenitore giaceva sfibrato, ‘svuotato’ (riricanah, termine perfettamente corrispondente alla kénosis paolina: ‘exinanivit se’). Subito, le creature gli voltano le spalle. Votato alla solitudine, prima e dopo avere creato, Prajapati non può mai gioire degli esseri che ha fatto esistere. È condannato a un perenne monologo, che a tratti può concentrarsi nell’‘ardore’, nel tapas”.

Ma la domanda ritorna: perché le creature abbandonarono Prajapati? Secondo Calasso “si può azzardare” una risposta, che è una risposta precisa. Le creature fuggono dal Padre “perché si vergognano di lui, perché riconoscono in lui il primo colpevole”. E la colpa, in fondo, è una sola: “la creazione stessa, quella ferita inferta nella pienezza, che l’aveva dispersa in un pulviscolo di esseri; quel passaggio irreversibile dal continuo al discontinuo, che ora avrebbe costretto tutti a vivere faticosamente tentando di ricomporre quel continuo – cioè il corpo stesso del Padre. E non sarebbero mai riusciti a farlo una volta per tutte”.

“Ma, prima di giungere a quel punto – e quasi non volessero pensare a che cosa li aspettava –, fuggirono. Lasciarono di nuovo il Padre nel deserto degli esseri, e l’osservarono da lontano mentre scopriva un modesto sacrificio per tentare – già da solo – di migliorare la sua condizione. Eppure, quella cerimonia gli giovò. Per il puro fatto di offrire. Ma a chi? C’era solo il vuoto davanti a lui. Allora ricordò: Chi? – Ka – era il suo nome. Offriva se stesso a se stesso”.

Punto a capo, e Calasso porta a trionfale compimento la speculazione condotta: “Ma non sarebbe mai bastato. Per ricomporre Prajapati non sarebbe occorso nulla di meno dell’immane costruzione dell’altare del fuoco. Gli uomini pensavano ai diecimilaottocento mattoni di cui avrebbero avuto bisogno per innalzarlo, per ricomporre il Padre”.

La “macchina speculativa del sacrificio brahmanico” si compie, e chissà se i tranquilli lettori del Corriere hanno afferrato che cosa c’è sotto.




Post scriptum. Per afferrare “che cosa c’è sotto”, cfr. Maurizio Blondet, Gli “Adelphi” della dissoluzione. Strategie culturali del potere iniziatico, Edizioni Ares, Milano 1994. Cfr., inoltre, qui (e numeri seguenti, spec. 2, 4 e 8), qui e anche qui.
 
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