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Caro Guccini, nessuna parentela tra Jan Hus e Jan Palach.
Di Francesco Agnoli - 24/03/2009 - Storia del Novecento - 6143 visite - 0 commenti


In una sua bellissima canzone, La primavera di Praga, il cantautore comunista Francesco Guccini racconta la morte eroica di Jan Palach, incendiatosi a Praga proprio 40 anni orsono per protestare contro la dittatura comunista vigente nel suo paese, mentre in Italia giovani borghesi e studenti annoiati o in ricerca confusa di un senso, inneggiavano a Mao, a Castro, e alla rivoluzione comunista. Quel gesto così forte e icastico a Guccini fece un’enorme impressione, tanto che egli volle nobilitarlo paragonando il fumo che saliva dal rogo di Jan Palach a quello, anteriore di secoli, che si era sollevato dalla pira dell’eretico Jan Hus.

Forse senza saperlo, Guccini ribaltava così un luogo comune caro alla sua tradizione politica: equiparava cioè un nemico del comunismo ad un eretico medievale, mentre solitamente erano stati proprio i teorici comunisti a volersi presentare come i successori e gli eredi degli eretici stessi. Guccini, però, aveva palesemente torto, e me ne dispiace, visto che talora ascolto volentieri alcune sue canzoni, belle ed intelligenti, anche se spesso non condivisibili. Aveva torto perché influenzato dai luoghi comuni del pensiero dominante, per cui ogni condannato di un tempo, sarebbe stato, invariabilmente, un innocente ed un perseguitato, tanto più se nemico della Chiesa. In verità Palach si era bruciato proprio contro Jan Hus e contro i suoi successori; in verità i veri discepoli di Jan Hus, divenuti carnefici vittoriosi, erano proprio i comunisti contro cui il giovane boemo aveva lanciato al cielo il suo grido di disperazione.

Ciò risulta chiaro se leggiamo, tra gli altri, il già citato studio di Igor Safarevic, con prefazione di A. Solgenitsyn, “Il socialismo come fenomeno storico mondiale”. Safarevic, che nella Russia comunista ha trascorso buona parte della sua vita, ricostruisce con mirabile bravura ed enorme messe di documenti l’ideologia socialista nei secoli e nei continenti, e mette in luce come la meta condivisa delle eresie medievali e moderne, come pure di molti illuministi atei, era una nuova società, in cui vigessero comunanza di beni e di donne: una società comunista, appunto, e, nel contempo libertina nei costumi, dittatoriale ed elitaria, quanto al governo. Esattamente come sarebbe successo nel Novecento in Russia, Cina, Cambogia… Ma cosa pensavano gli hussiti, per giustificare quanto si è detto. Costoro erano animati innanzitutto, dal millenarismo più radicale: nel 1420 sarebbe venuta la fine del vecchio mondo, dominato dal male, la consumatio saeculi. Sarebbe giunto, quindi, il giorno della vendetta e del castigo: “Bisogna piegare come rami di alberi tutti i privilegiati e i potenti e bruciarli nella stufa come paglia; non ne resterà radice né germoglio, e saranno macinati come covoni, il sangue ne stillerà, saranno distrutti da scorpioni, serpi e bestie feroci, e messi a morte”; per completezza, “nell’anno della vendetta la città di Praga dovrà essere distrutta e bruciata dai fedeli, come Babilonia”. Linguaggio immaginifico, di pazzi esaltati, ma alla fine innocui? Niente affatto. I taboriti, questo il nome da loro assunto dopo aver dato vita ad una cittadina fortificata chiamata Tabor, vicino Praga, erano soliti bruciare sul rogo i sacerdoti, distruggere le chiese, abbattere le biblioteche, bruciare i libri, incendiare interi villaggi, sterminare senza pietà coloro che si opponevano alla loro missione profetica di giustizia, salvo poi trucidarsi tra loro in seguito a dissidi e divergenze. Il tutto in nome, va ripetuto, del comunismo: “tutto sarà comune, comprese le donne: i figli e le figlie di Dio saranno liberi e non esisterà il matrimonio come unione tra marito e moglie”. “Distaccamenti taboriti”, conclude Safarevic, “giunsero sino al mar Baltico, fin sotto le mura di Vienna, Lipsia e Berlino; Norimberga pagò loro un tributo. La Boemia fu devastata”. Non sappiamo se qualcuno si bruciò in segno di protesta, ma sappiamo che un popolo intero si armò, alla fine, per eliminarli, non solo in nome della fede, ma anche del buon senso e del diritto naturale.

 Ma “distaccamenti taboriti” giunsero alle soglie del Ventesimo secolo, con la stessa carica millenarista, lo stesso fanatismo, lo stesso spirito utopico, e cioè violento e sovvertitore della realtà, e lo stesso rancore per chi, dinanzi alla realtà, si inchina, e la riconosce, per statuto: la Chiesa cattolica. Già nel 1950, ricorda il Libro nero del comunismo, si iniziarono a Praga svariati processi contro gli alti dignitari degli ordini e nella notte tra il 13 e il 14 aprile i conventi vennero assaliti e “la maggior parte dei religiosi venne espulsa e internata”. I taboriti del Novecento compirono ogni misfatto, lì, come in tutto l’est, con lo stesso spirito blasfemo con cui nel quattrocento bruciavano i crocifissi, rovesciavano gli altari, parodiavano i sacramenti.

In Romania, nello stesso 1950, l’inquisitore comunista Turcanu torturava i seminaristi facendo loro officiare dei riti sacrileghi, in cui la Vergine diveniva “la grande puttana” e Gesù “il coglione che è morto sulla croce”. Il seminarista che doveva fare la parte del prete “veniva fatto spogliare completamente, gli veniva avvolto addosso un mantello macchiato di escrementi e appeso al collo un fallo confezionato con il sapone e la mollica di pane e cosparso di DDT”. Altri religiosi che non volevano piegarsi a rinnegare Cristo, venivano immersi con la testa, ogni mattina, “in una tinozza piena di urina e di materia fecale”, in una sorta di parodia del battesimo. Il loro nome è scritto nel libro eterno della Vita, forse vicino a quello di Jan Palach, ma ben distinto da quello di Jan Hus.
 
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