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Le radici cristiane dell'Europa
Di Francesco Agnoli - 07/12/2006 - Storia del Cristianesimo - 2601 visite - 0 commenti

Le radici cristiane dell'Europa sono una realtà concreta, effettivamente dimostrabile, o una pura rivendicazione, in qualche modo astratta e prevaricatrice? Si vuole capire cioè se veramente il cristianesimo ha segnato in maniera determinante, e non solo nel male, la vita concreta di milioni e milioni di persone che hanno vissuto nel nostro continente dall'epoca dell'Impero romano sino ad oggi.

Nel 476 dopo Cristo l'Impero Romano d'Occidente affonda definitivamente sotto i colpi dei barbari. Istituzioni politiche, confini, eserciti, usi e costumi, consolidatisi nell'arco di centinaia d'anni, lasciano spazio a invasioni barbariche, da nord, di popoli germanici, di popoli asiatici come gli Unni, e, da sud, a partire dal 650 d.C. circa, di popoli arabi e islamici che devastano le coste dell'Africa, un tempo granaio dell'Impero e trasformano il Mediterraneo in un mare impraticabile ai commerci e agli scambi. Per molti uomini dell'epoca la fine del mondo è vicina: "E' caduto il principio di unificazione del mondo: noi siamo distrutti", scrive san Girolamo, interpretando il pensiero e la disperazione dell'uomo comune. Le magnifiche strade costruite dai romani, gli acquedotti, le terme, le stesse città, tutto si sgretola per l'incuria, le devastazioni, l'erbacce che crescono ovunque, strappando la terra alla possibilità dell'agricoltura: boschi e paludi spuntano là dove prima c'erano campi arati e terre fertili. Di fronte a tutto questo il Cristianesimo nascente rivela una forza prodigiosa, un'operosità commovente, e inizia a costruire un mondo nuovo, forte della Fede, della Speranza e della Carità. Sono i monaci, nei loro monasteri, a divenire i fari seminati in un oceano di tenebre: lavorano e pregano, pregano e lavorano. Mentre pregano trovano la forza di opporsi al crollo dell'edificio, alla desolazione delle macerie. Ricominciano ad arare la terra, ne strappano parte ai boschi e alle paludi. Nei loro "orti dei semplici" selezionano le erbe curative e gli elisir da conservare negli armadi dell'"armamentarium pigmentariorum", la farmacia monastica. Negli xenodochi (ricettacoli di stranieri, ospizi) i monaci infirmari assistono e curano gli altri monaci, e i malati del villaggio. Nei loro scriptoria ricopiano i testi antichi e nuovi, per tramandare la storia, la cultura, il senso della civiltà: lo fanno a mano, copia per copia, incrollabili come le sentinelle. Attorno a loro rifiorisce la vita, la gente si avvicina, impara un mestiere, riprende coraggio. Nascono delle vere e proprie città: San Gallo, Innsbruck, Monaco di Baviera e tante altre non sono, in origine, che monasteri.

Ma il risultato più evidente del nuovo mondo, riedificato pietra su pietra, è una cultura nuova, un nuovo modo di considerare Dio e l'uomo. Uno degli effetti più significativi, per lo storico, dell' avvento del Cristianesimo, comunque lo si consideri, è infatti la scomparsa graduale, e quasi totale, dall'Europa del sacrificio umano rituale. Se ricordiamo, nella civiltà cretese l'usanza di sacrificare persone umane traspare nel mito dei sette giovanetti e delle sette fanciulle ateniesi immolati al famoso Minotauro. Anche nella Grecia antica, patria della filosofia e del pensiero occidentale, esistevano molte forme di sacrificio umano: anzitutto il farmakos, un uomo che veniva rimpinzato di cibo tutto l'anno e poi immolato alla dea della fecondità (rito propiziatorio). Lo storico Plutarco racconta inoltre che questo poteva avvenire anche prima di una battaglia: Temistocle, prima di Salamina, sacrificò tre persiani in onore di Dioniso Omestes (Plut.Themist.13). Del resto Dioniso, questo dio di provenienza orientale, era assetato di sangue animale e talvolta anche umano.Lo racconta Euripide nelle "Baccanti", allorchè descrive le sacerdotesse di Dioniso che, in preda al vino e all'esaltazione dei tamburi, uccidevano giovani animali, ma anche, seppure per sbaglio, il figlioletto di una di loro. Il commediografo Aristofane poi ci racconta che alcuni reietti della società venivano mantenuti a spese della comunità, in maniera che, se la città fosse stata attaccata dalla peste o dalla carestia, alcuni di essi potessero essere sacrificati come capri espiatori (rito espiatorio). Quanto alla civiltà romana sacrifici ve ne furono sempre, più o meno diffusi, specie in momenti di panico, come testimonia ad esempio Tito Livio in Ab urbe condita. Si può ricordare, ad esempio, il caso di Massenzio, che arrivò a sventrare donne incinte per leggerne le interiora. Il sacrificio era talora legato alle arti magiche: Orazio (I sec.a.C.) ci dà la descrizione della "strega Canidia", nell'epodo V. Vi si descrive un puer, un fanciullo, che viene sepolto in una buca, fino al mento: "col midollo raschiato e il fegato secco si farà il beveraggio dell'amore" ( un'altra bevanda di Canidia è fatta di fichi selvaggi, piume di civetta, uova di rospo, erbe di Iolco...). L'uccisione di un fanciullo rientra nella logica tipica del sacrificio antico: il più prezioso è quello di creature giovani, innocenti (se si tratta di animali, i vitelli, di vegetali, le primizie). Quanto ai popoli celti abbiamo tra le altre la testimonianza di Cesare nel De bello gallico: parlandoci dei druidi afferma che "immolano uomini come vittime o promettono che immoleranno loro stessi" (pro victimis homines immolant aut se immolaturos vovent). E prosegue: "Altri hanno simulacri di smisurata grandezza le cui membra conteste di vimini riempiono di uomini vivi; poi danno loro fuoco". Storie analoghe vengono raccontate anche da Plinio, mentre Tacito spiega di come i Druidi inzuppassero gli altari col sangue dei prigionieri e consultassero gli dei tramite le viscere umane (Annales, XIV, 30). Pratiche rituali analoghe esistono contemporaneamente anche presso Britanni ed abitanti dell'Irlanda.

Se ci spostiamo fuori dall'Europa le cose, addirittura, peggiorano. Gli Aztechi, e, in misura minore, anche gli Incas, prima dell'arrivo del Cristianesimo, sono convinti che sia continuamente necessario sacrificare alle forze naturali, specie al dio Sole, per evitare che questo cessi la sua funzione e si spenga: "A insanguinare ogni giorno i gradini degli enormi templi era quest'ansia ossessionante di non lasciare finire il mondo, un'ansia che raggiungeva il suo culmine ogni cinquantadue anni, quando la minaccia della catastrofe si faceva più concreta e imminente" (Bernal Diaz del Castillo, La conquista del Messico, Longanesi, Milano, 1980; prefazione di Franco Marenco e Pietro Citati). Così presso gli Aztechi "quattro preti afferravano la vittima scaraventandola sulla pietra sacrificale. Quindi il Gran Sacerdote piantava il coltello sotto il capezzolo sinistro facendosi largo attraverso la cassa toracica, finché, rovistando a mani nude, non riusciva a strappare il cuore ancora pulsante e a metterlo in una coppa per offrirlo agli dei. Dopodiché i corpi venivano fatti precipitare dalle scale dalla piramide: ad attenderli, al fondo, c'erano altri preti che incidevano ogni corpo sulla schiena, dalla nuca ai talloni, e ne strappavano la pelle…"( Vittorio Messori, "Pensare la storia", Paoline, 1992; Luigi Lunari, Cortes, Rizzoli, Milano 2000; G.C. Vailiant, La civiltà Azteca, Einaudi, Torino, 1992: in quest'ultimo testo si descrivono altre terribili usanze, quale quella di costruire "grandi rastrelliere coperte di teschi" o quella di fare a pezzi, con mazze armate di lame di ossidiana, dei prigionieri legati a pietre circolari e offerti al dio Sole). Infine gli arti venivano donati, a seconda del loro pregio, a sacerdoti e guerrieri per essere mangiati (cannibalismo).

 Sotto gli Incas la situazione è analoga: specie bambini e vergini vengono sgozzati, strangolati o espiantati, alla maniera azteca, del cuore, per allontanare carestie, epidemie ecc. Si arrivano a sacrificare fino a 20.000 persone in un solo giorno. Queste vere e proprie mattanze determinano la necessità di continue guerre per procurare i sacrificandi, così che Aztechi ed Incas assoggettano e terrorizzano le popolazioni confinanti. Un altro tipo di "sacrificio" ad essere eliminato con l'avvento del Cristianesimo è quello dei giochi gladiatorii. E' l'imperatore Costantino, il figlio di Santa Elena, ad abolire questa usanza crudele che rappresentava gran parte del divertimento pubblico dell'antica Roma, determinando la morte di migliaia di persone, sacrificate nelle finte battaglie navali o terrestri che si svolgevano negli anfiteatri di tutta Europa. Come racconta lo storico pagano Tacito nei circhi la gente veniva anche condannata ad bestias, ad essere sbranata dalle belve, oppure, all'epoca di Nerone, specie i cristiani, venivano cosparsi di pece e bruciati vivi. Ma anche i gladiatori, fino a Costantino, potevano subire l'atroce morte prevista dall'auctoratus (Salvatore di Marzo, Istituzioni di diritto romano, Giuffrè), e cioè dal contratto per cui il gladiatore poteva essere bruciato, legato, ucciso col ferro (uri, vinciri, ferroque necari).

Costoro, i vecchi gladiatori, col Cristianesimo tornano uomini liberi. Spesso infatti erano schiavi. Nel mondo antico la schiavitù è esistente in tutte le civiltà, da quella egizia a quella romana. Sopravvive poi nell'Islam, mentre nell'Induismo è presente una rigida divisione per caste. Quando il cristianesimo comincia ad affermarsi nel mondo romano tutta l'Europa pratica la schiavitù. Il cristianesimo non la abolisce con anatemi e condanne: è la pratica della carità, il concetto di anima personale che corrodono a poco a poco questo istituto, così naturale, specie nei confronti dei barbari, per Platone ed Aristotele. In realtà la Chiesa, sapendo di non poter imporre l'eliminazione così ex abrupto, mette dei paletti: il concilio di Elvira nel 305 impone 7 anni di penitenza a chi abbia ucciso il proprio schiavo; il concilio di Orleans proclama il diritto di asilo per gli schiavi fuggiaschi; quello di Eauze (551) libera d'autorità il servo costretto dal padrone a lavorare di domenica…e così, a poco a poco, il servo diventa spesso uomo libero.

Anche nella vita familiare col Cristianesimo cambiano molte cose: l'imperatore cristiano Giustiniano interviene sul diritto romano pagano purificandolo in più punti, ad esempio togliendo il diritto di vita e di morte (ius vitae ac necis) nei confronti della moglie e dei figli e, all'incirca nello stesso periodo, si rende obbligatorio il mantenimento dei figli illegittimi. Col tempo la Chiesa rinnoverà ulteriormente l'istituto del matrimonio: nel VII secolo elimina il consenso dei genitori, fino ad allora considerato necessario per la validità; poi imporrà il controllo da parte della comunità e dei testimoni sulla coppia nubenda, affinchè non vi siano matrimoni di comodo, matrimoni in cui la donna è costretta con la forza, matrimoni tra parenti, che possono determinare figli malformati, casi di poligamia occulta…

A tal proposito andrebbe letto meglio il catalogo degli "impedimenti dirimenti" che don Abbondio legge a Renzo nei Promessi sposi: benchè il curato se ne serva per un fine cattivo, non si tratta di una serie di limiti odiosi ed illiberali, bensì di regole a tutela del matrimonio, della donna e della sanità dei figli ( i divieti riguardano casi di "cognatio, vis, ligamen, si sis affinis", e cioè di parentela, violenza o questioni analoghe). Vi è dunque una nuova libertà per la donna che, invece, nel diritto romano classico, e cioè pagano, era sotto perpetua tutela, legalmente incapace, per tutta la vita, salvo alcune eccezioni introdotte da Augusto. Basti pensare che la donna romana "viene indicata di solito con la semplice appartenenza alla gens, a cui aggiunge, eventualmente, il nome del marito, e solo in casi eccezionali porta un prenome" (Marta Sordi, Alle radici dell'Occidente, Marietti). Occorre brevemente ricordare che la condizione della donna è tuttora non molto piacevole, sotto tanti cieli. Nell' Islam, ad esempio, è sottoposta alla poligamia, alle mutilazioni genitali, alla lapidazione, all'harem, al Chador o al burqa ecc. Analogamente nel mondo induista la donna è una condizione di punizione nella dinamica del karma. E' quindi inferiore all'uomo (Corrado Gnerre, "La religiosità orientale", Il Minotauro).

Una simile visione ha conseguenze precise: dall'abitudine degli indù ortodossi di non mangiare in compagnia delle mogli, alla pratica dell'eliminazione delle femmine, così diffusa che mancano all'appello, oggi, in India, circa 38 milioni di donne. E' notizia di dominio pubblico che in questo paese l'ecografia sia usata per stabilire il sesso del nascituro, ricorrendo spesso all'aborto nel caso si tratti di una bimba. In altri casi succede che le neonate "vengono affogate, soffocate, avvelenate o abbandonate al ciglio della strada" (Avvenire, 2/111/2003). C'è poi un'altra usanza, già descritta da Verne nel suo "Il giro del mondo in ottanta giorni": in un passato molto recente le donne indù rimaste vedove erano costrette ad immolarsi sulla pira del marito. Questo rituale è stato proibito nel 1829 dagli inglesi, ma rimane in voga tuttora, seppur di rado e clandestinamente. Ad ogni modo la donna vedova deve ancor oggi dire "addio per sempre ai diritti di un essere umano. Non ha più proprietà, perché le prendono i figli, non può comprare né vendere, perché nel peggiore dei casi viene dichiarata la morte presunta. Un tempo (le vedove, ndr) si davano fuoco sulla stessa pira dell'uomo…oggi restano vittime di misteriosi incidenti domestici, il più delle volte provocati dai parenti del marito che non vogliono più avere a che fare con loro" (Repubblica, 13/7/'99). Nel mondo cristiano, al contrario, la donna ottiene, fin dal Vangelo, una nobiltà nuova. Diviene "né padrona né serva, ma socia" (nec domina nec ancilla, sed socia) secondo Ugo di S. Vittore, mentre secondo tutta la tradizione stilnovistica e cortese diviene appunto donna, e cioè domina, signora, padrona. Da qui il termine madonna, usato ad esempio per Beatrice e Laura, da Dante e Petrarca, che significa appunto mea domina, mia signora; da qui anche dama, monna (monna Lisa)…

Non è un caso che le donne importanti della storia medioevale non siano più soprattutto le etere greche, le Agrippine o le Messaline romane. Senza aspettare Giovanna D'Arco, una diciassettenne che segnerà la Francia, vi sono anche prima alcune donne che cambiano la storia. Nel 496 la principessa burgunda Clotilde convince il feroce marito Clodoveo a pregare il Dio dei cristiani prima di una battaglia con gli Alamanni; Clodoveo vince, si fa battezzare nella cattedrale di Reims con 3000 suoi guerrieri, e la Francia diviene a poco a poco cattolica, il paese di Chartres e Notre Dame, del gotico e della Sorbona di Parigi Un'altra donna, Teodolinda, figlia del duca di Baviera, sposa successivamente due re longabordi: con lei anche il selvaggio popolo longobardo si converte al cattolicesimo. Nel VI secolo la nobile franca Berta converte il marito Etelberto di Kent. Queste conversioni non sono solo una gloria per la fede: sono popoli che smettono di guerreggiare tra loro, di praticare la faida, l'ordalia, il sacrificio umano e l'infanticidio. E' tutta l'Europa che si converte, che diviene appunto un'unità religiosa e, sotto Carlo Magno, politica. Nel V secolo S. Patrizio, nato nella Britannia romana da famiglia benestante, rapito a 16 anni dai pirati irlandesi e messo a controllare le pecore, converte l'Irlanda tramite l'istituzione di monasteri, detti civitates. L'Irlanda diviene così "isola di santi e di dottori", di poeti, grammatici, astronomi, conoscitori del latino e cultori degli autori antichi. Dall'Irlanda partono i monaci che per primi si dedicano alla conversione degli Anglo-Sassoni della Britannia. Da quest'ultima viene San Bonifacio del Wessex, il fondatore di Fulda, colui che converte i Germani al cristianesimo, alla religione cattolica e allo studio della cultura latina. Anglosassone sarà Alcuino di York, maestro di Carlo Magno e direttore della scuola Palatina, "ministro dell'Istruzione" che aiuterà l'imperatore a istituire scuole, a disporre della corretta trascrizione dei codici e dell'insegnamento della scrittura, del computo e della musica (rinascita carolingia). Così, nel corso di alcuni secoli, un mondo civile rinasceva, fino all'esplosione di vita religiosa, culturale, economica dell'anno Mille, con la rinascita delle città e dei commerci, il sorgere delle Università, della letteratura sacra e profana, della pittura di Giotto e della scultura di Donatello…

Tutta l'Europa è piena ancor oggi dello spirito di quest'epoca, espresso superbamente nella bellezza delle cattedrali romaniche e gotiche. Come scrive Cardini, infatti, "la cattedrale si afferma come concezione globale dell’arte, anzi come specchio di una concezione del mondo, nella misura in cui il tempo delle cattedrali è il medesimo della filosofia logica e scolastica, dell’avvio della navigazione oceanica, della rivoluzione nel campo della cartografia, degli inizi dei viaggi missionari e mercanteschi in Asia, del ritorno dell’Occidente alla coniazione dell’oro e alla tradizione scientifica aristotelica. E’ pertanto la primavera della nostra patria europea che noi cittadini dell’Europa salutiamo oggi, ricordando il sorgere sul nostro suolo patrio di questi splendidi fiori di pietra candida, le cattedrali”. Anche la concezione del dolore, tipicamente evangelica, ha un ruolo essenziale nel creare una mentalità europea: orfanatrofi, case per vagabondi, ospedali, sorgono nell'Europa cattolica nel Medioevo e durante tutto il Cinquecento a ritmo continuo. Sono i ricoveri di Ignazio di Loyola; gli ospedali di S. Camillo de Lellis, un ex soldato, ferito irrimediabilmente ad una gamba, che dedicherà tutta la sua vita ai malati, ai lebbrosi ed ai sifilitici, fondando i Camilliani. Sono le Confraternite della Spagna, che danno vita all'Ospedale più grande dell'Europa del Cinquecento, quello delle Cinque Piaghe. Sono i Fatebenefratelli di Joào Ciudada, le Misericordie di tutta Italia, i discepoli di Vincenzo de' Paoli, il protettore dei poveri, dei vagabondi di Parigi, che diventerà il modello per le Confraternite Vincenziane di Federico Ozanam… E nel campo della scienza? Anche qui ci sarebbe molto da dire, per confutare tanti luoghi comuni assolutamente falsi.

Basterebbe partire da un dato di fatto: la scienza moderna nasce proprio in Europa, e cioè nel continente più intriso di Cristianesimo, e non altrove. Chi sa, ad esempio, che un francescano come Roberto Grossatesta ed un biblista come Namanide avevano già teorizzato il Big Bang nel XII secolo, a partire dal Genesi, e che la stessa teoria era stata esposta, in nuce, da Galileo Galilei in una lettera all'amico Monsignor Pietro Dini del 1615? Chi ricorda che le prime teorie scientifiche moderne sono legate alla scuola francescana di Oxford, e a francescani come Ruggero Bacone? Che Giovanni Buridano, francescano medievale, teorizzò la dottrina dell'impetus, in qualche modo anticipatrice del principio di inerzia, con cui si confutava l'insegnamento aristotelico sulle intelligenze motrici dei cieli, aprendo la strada all'astronomia moderna? Perché trascurare sempre la figura di Nicola Oresme, filosofo scolastico, che proponeva l'ipotesi della rotazione della terra? Perché, ancora, non dire che Copernico era un religioso polacco, o che tra gli amici e protettori di Galileo vi erano padre Benedetto Castelli, generalmente considerato il fondatore dell'idraulica, e una pletora di preti e monsignori di cui non si tiene il conto? Perché dimenticare, regolarmente, che l'errore che costò a Galileo, pur ingiustamente, gli arresti domiciliari, fu di aver presentato come prova certa della sua teoria il movimento delle maree, quando un vescovo, il De Dominis, aveva già capito la loro spiegazione esatta, e cioè che sono dovute non alla rotazione terrestre ma all'attrazione gravitazionale della luna? Perché dimenticare che Galileo, come ha spiegato in molti suoi libri il professor Zichichi, era perfettamente in linea col pensiero cristiano (anche se non sempre con i cristiani), o che padre Foscarini, carmelitano, sosteneva posizioni analoghe alle sue in campo astronomico, negli stessissimi anni? Perché non ricordare, ancora, che Mendel, il padre degli studi sulla genetica, era un prete?

 
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