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L'antipsichiatria e Franco Basaglia
Di Mattia Tanel - 17/08/2011 - Scienza - 5613 visite - 0 commenti

La legge 180 del 1978 – la cosiddetta “legge Basaglia” – non ha sancito l’abolizione degli ospedali psichiatrici, ma l’abolizione della realtà sic et simpliciter. Nel testo legislativo, ad esempio, la parola “pericolosità” non compare neppure una volta. È la stessa dinamica per cui nella 194/78, la legge sull’aborto, non compare mai la parola “madre”: si allontanano i vocaboli, nell’illusione che ciò contribuisca a far scomparire ciò che di concreto essi designano. Prima della 180, proprio la minaccia potenziale rappresentata dai malati di mente era stata, com’è giusto e naturale, tra le principali preoccupazioni del legislatore. Dopo, non ci si è più voluto pensare: per i basagliani, la pericolosità del malato mentale è solo un antiquato pregiudizio della società oppressiva, essa stessa autentica matrice di ogni comportamento deviante. Tra omicidi e suicidi, i bei risultati di queste idiozie sono quantificati dal sito vittimedella180.org: 350-400 morti all’anno.

 

 

Ma come si è giunti alla legge 180? Chi è stato Franco Basaglia? Fornirò, qui, solo alcune notizie in pillole, che possano però dare un’idea del micidiale brodo di coltura denominato correntemente antipsichiatria.

 

 

L’antipsichiatria è un insieme di tendenze in campo psichiatrico fiorite negli anni Cinquanta-Settanta del Novecento. I suoi principali esponenti a livello internazionale sono perlopiù individuati in David Cooper (che per primo, nel 1967, utilizza il termine “antipsichiatria”), Ronald Laing e Thomas Szasz. Come il nome stesso suggerisce, ciò che caratterizza l’antipsichiatria è l’opposizione radicale a tutto ciò che fino ad oggi si è comunemente inteso per psichiatria, ovvero il settore della medicina deputata al trattamento delle malattie mentali. Perché le malattie mentali, sostengono gli antipsichiatri, non esistono affatto. Prendo a prestito le efficaci parole di Corrado Gnerre: “[L’antipsichiatria si basa] su un giudizio ben preciso sulla malattia mentale, meglio: su un non-giudizio, ovvero sulla convinzione che la follia non possa essere davvero riconosciuta tale… e perché? Perché un atto e un comportamento possono essere giudicati ‘folli’ allorquando si parte da un criterio di giudizio che preveda il riconoscimento di una ‘norma’, cioè di una ‘normalità’; allorquando si parte dalla convinzione che esiste un ordine naturale e un disordine, una logica ed un’illogica, un bene ed un male. Ora, dal momento che l’antipsichiatria fa propria una visione delle cose completamente relativista, ecco dunque che non può riconoscere nessuno statuto alla malattia mentale. La follia non è più giudicabile come tale, perché non si può essere certi di cosa sia la normalità e cosa sia, invece, l’anormalità” ( La Rivoluzione nell’uomo, pp. 54-55). I folli, in quest’ottica, sono delle persone come tutte le altre, o forse addirittura privilegiate rispetto alle altre a causa dell’avvenuto superamento, in loro, delle arbitrarie categorie di pensiero e di azione imposte agli uomini dalle strutture reificanti della società capitalistica. Lo stesso Gnerre cita a questo proposito la “Lettera ai primari di manicomi”, pubblicata nel 1925 sulla rivista La Révolution surréaliste: “Non ammettiamo che si ostacoli il libero svilupparsi di un delirio che è legittimo, logico tanto quanto qualsiasi serie di idee o di atti umani (…). Senza insistere troppo sulla natura assolutamente geniale insita nelle manifestazioni di certi pazzi, nella misura in cui siamo adatti ad apprezzarle, affermiamo l’assoluta legittimità della loro concezione della realtà e di tutte le azioni che da essa derivano” (in op. cit., p. 55). Ai pazzi, dunque, come propugnavano i surrealisti, non va più imposto alcun vincolo, alcuna contenzione. La verità non esiste, la realtà non è quella che sembra: il modo di agire e la visione del mondo di un pazzo hanno lo stesso diritto di esistere di quelli di chiunque altro.

 

 

Segnalo di passaggio la matrice gnostica di tali concezioni (matrice che si fa del tutto esplicita nei testi di Laing) per passare direttamente al alcune notizie ed aneddoti riguardanti il maggior rappresentante italiano dell’antipsichiatria, Franco Basaglia (1924-1980).

 

 

Marx, com’è noto, pone come fulcro del movimento storico (dialettica) la categoria del conflitto, che si svolge per lui tra capitalisti e proletari, ovvero tra sfruttatori e oppressi. È dallo scontro mortale di tali forze che germinerà, un giorno, la società senza classi e senza ingiustizie. Nella seconda metà del Novecento l’identica ‘ideologia del conflitto’ verrà estesa da molti pensatori alle più disparate realtà sociali: uomini e donne (femminismo), adulti e giovani (contestazione giovanile), clero e laicato (cattolici del dissenso), eccetera: tutte realtà, per gli ideologi in questione, destinate a rapportarsi non in termini di conciliazione e servizio reciproco, ma di opposizione e lotta. Basaglia, come altri antipsichiatri, si incarica di estendere la medesima dialettica marxiana al rapporto tra sani di mente e malati psichiatrici. Questi ultimi sarebbero secolarmente oppressi e discriminati dai primi, che stabilirebbero un arbitrario ed escludente concetto di ‘normalità’ con lo scopo, inconfessabile, di scaricare sul mondo della patologia psichica i propri intimi conflitti irrisolti. La storia del malato è una storia di oppressione, che comincia in famiglia (‘istituzione della violenza’) per finire nel lavoro e nella società. Per far sì che i ricoverati prendano coscienza di queste dinamiche di esclusione e sopruso, Basaglia inventa una speciale antipedagogia. Fa partecipare i malati di mente a una sorta di lavaggio del cervello alla rovescia, cercando (parole sue) di “stimolare l’aggressività nascente facendo avvicinare la loro situazione a quella di altri ‘esclusi’, attraverso la proiezione di documentari in cui fossero evidenti le parti degli oppressi e degli oppressori”.

 

 

Quello di ridestare l’aggressività dei malati ‘oppressi’ è un pallino di Basaglia. In un articolo, dichiara che “su questa aggressività, che noi psichiatri cerchiamo per un’autentica relazione con il paziente, potremo impostare un rapporto di tensione reciproca che, solo, può essere in grado di rompere i legami di autorità e paternalismo, causa fino a ieri di istituzionalizzazione”. Come si suol dire, “chi semina vento raccoglie tempesta”. Sorvolando sugli episodi di cronaca che vedono pazienti in cura presso Basaglia ammazzare le mogli a colpi d’accetta, lo stesso psichiatra è oggetto, nel settembre 1977, di un tentativo di linciaggio da parte di un gruppo di contestatori denominato “Marge”: i suoi componenti si definiscono “ex delinquenti, emarginati, folli, prostitute”, e vogliono fare della marginalità una “coscienza nuova.

 

 

Tra le novità introdotte da Basaglia nella gestione dei manicomi (prima della legge 180) è compresa l’abolizione della distinzione rigida dei luoghi di degenza per uomini e donne. Già nel 1973, con Basaglia direttore dell’ospedale psichiatrico di Trieste, a diversi medici dell’équipe vengono recapitati avvisi di reato per “somministrazione di sostanze anticoncezionali con presunta violenza”; nel 1978, poi, arrivano quattro avvisi di reato ad altrettanti medici per “procurato aborto in donna consenziente”. Tutta l’équipe basagliana si autodenuncerà per lo stesso reato.

 

 

 

 

 

 

Fonti:

 

 

Corrado GNERRE, La Rivoluzione nell’uomo, Fede&Cultura 2008

 

Mario COLUCCI e Pierangelo DI VITTORIO, Franco Basaglia, Bruno Mondadori 2001

 

Franco BASAGLIA, L’utopia della realtà (a cura di Franca ONGARO BASAGLIA), Einaudi 2005

 

Mario GHIOZZI, “La psichiatria”, in I.D.I.S., Voci per un Dizionario del Pensiero Forte, http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci/p_psichiatria.htm

 

Ermanno PAVESI, “L’antipsichiatria”, in I.D.I.S., Voci per un Dizionario del Pensiero Forte, http://www.alleanzacattolica.org/idis_dpf/voci/a_antipsichiatria.htm

 

http://www.vittimedella180.org

 

 
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