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Pareri giuridici sul caso Eluana.
Di Rassegna Stampa - 15/11/2008 - Eutanasia - 1215 visite - 0 commenti

Francamente di fronte alla condanna a morte per fame e per sete inflitta ad Eluana Englaro dai giudici della Repubblica italiana (Corte di Appello di Milano e Suprema Corte di Cassazione) con delega ad un privato cittadino per l'esecuzione, sulle prime mi sono rallegrato di non essere più componente attivo della magistratura italiana, avendo scelto il pensionamento con un paio di anni di anticipo.

Tuttavia non ho tardato a mutare di avviso e a dispiacermene, perché se non avessi anticipato i tempi, sarei, in questo mese di novembre dell'anno non più di Grazia 2008, tuttora in servizio e potrei presentare con più che legittimo sdegno le mie dimissioni da una corporazione che include nel suo seno troppi protagonisti che tutto sono tranne che la “voce della legge”, dal momento che la pur necessaria opera interpretativa viene, di fatto, utilizzata per la creazione di norme che non hanno mai avuto, attraverso l'approvazione del Parlamento, l'avallo del consenso popolare, ma sono solo l'espressione dell'ideologia di una piccola casta dotata di troppo e troppo incontrollato potere. So perfettamente che il fenomeno è antico quanto la legge e che già i nostri padri ritenevano (comunque con palese disapprovazione) che troppo spesso il diritto “aequat quadrata rotundis” e “facit de albo nigro” (credo non importi tradurre), ma con quest'ultima decisione si è andati davvero troppo oltre nell'attività creativa del diritto da parte della giurisprudenza.

D'accordo, esistono l'interpretazione estensiva, l'analogia e tutti gli altri amminicoli strumentali indispensabili nel lavoro di applicazione del diritto ai casi concreti, ma sfido chiunque a trovare nel nostro ordinamento giuridico (a parte il caso dell'aborto, sul quale si è fino ad oggi glissato con sottili distinzioni fra feto, zigote e momento di acquisizione dello status di persona) una norma che anche indirettamente autorizzi la soppressione di un essere umano. E un'altra che attribuisca questo potere ai giudici della Repubblica. In realtà le stesse disquisizioni sull'accanimento terapeutico (comunque non ricorrente nel caso, non avendo natura di cure nel senso medico del termine la nutrizione e l'idratazione) sono, allo stato, del tutto fuor di luogo, dal momento che non esistono leggi che lo prevedano per punirlo, vietarlo o regolarlo. Sono sempre stato contrario alla pena di morte anche nei confronti dei peggiori colpevoli e, nelle discussioni con gli amici, ho sempre sostenuto che piuttosto che irrogare una condanna capitale avrei presentato le mie dimissioni. In realtà mi ritenevo al sicuro e parlavo per semplice amore di tesi, perché la morte non rientrava più fra le sanzioni previste dal nostro ordinamento, e, in ogni caso, la mia attività giudiziaria si svolgeva di massima nel settore civile. Adesso scopro con orrore che mi sarebbe potuto accadere di fare parte di un collegio capace di condannare a morte a maggioranza (il mio voto sarebbe comunque mancato) un essere umano. Per fortuna (ma è consolazione da poco)non sono l'unico a indignarmi.

Un comunicato di “Medicina & Persona” parla del "primo caso di omicidio legale in Italia". A sua volta L'Associazione fra Operatori Sanitari denuncia la gravità di una sentenza che prova come "ormai certi giudici aggirano le leggi - anche quelle esistenti - e creano una nuova era, quella dell'etica del più forte sul più debole, con l'ausilio del diritto". Purtroppo di fronte al montare delle critiche e dell'indignazione il Consiglio Superiore della Magistratura non ha trovato di meglio che aprire una pratica a difesa dei magistrati della Cassazione. Farebbe meglio a interrogarsi sui limiti della giurisdizione. Francesco Mario Agnoli (magistrato, ex componente Csm, su la Voce della Romagna)

 

IL DIRITTO STRUMENTO DI VITA 
 

AVALLATA L’EUTANASIA SENZA IL CORAGGIO DI CHIAMARLA PER NOME 


di FRANCESCO D’AGOSTINO (Avvenire 14.11.08)


Ci sarà modo nei prossimi giorni di approfondire la valenza propriamente giuridica della sentenza della Cassazione sul 'caso Eluana'. Avremo modo di verificare se l’agonia cui Eluana appare or­mai irrimediabilmente condannata sarà paragona­bile a quella, atroce per la sua lunghezza, di Terry Schiavo. Per ora limitiamoci a richiamare le obiettive ricadute biogiuridiche e soprattutto bioetiche di questa sentenza. Ribadisco: bioetiche e non teologiche, non dogmatiche, non spirituali, non religiose. Non perché queste ricadute non ci siano (anzi, sono le più importanti), ma perché prima di ap­prodare al piano della teologia e della spiritualità abbiamo il dovere, come cittadini di una società laica e pluralista, di soffermarci e di ragionare pacatamente sul piano della comune ragione umana, quel piano che tutti ci accomuna, credenti e non credenti, quel piano che i magistrati di Cassazione han­no obiettivamente offeso.

A seguito dell’iter processuale cui questa sentenza sembra aver posto fine è stato introdotto in Italia un principio che non solo non appartiene alla nostra tra­dizione giuridica, ma che ripugna alla logica stessa del diritto: quello della disponibilità della vita uma­na e soprattutto della vita umana malata. In poche parole, i magistrati hanno avallato l’eutanasia, senza avere il coraggio di chiamarla con il suo nome.

Non è vero che il caso Eluana sia riconducibile al legittimo rifiuto di un trattamento sanitario: alimentare un malato non è sottoporlo a un 'trattamento', ma prendersi cura di lui, in una forma simbolica ben più alta di quella stessa della medicina. E comunque, il solo fatto che esista l’opinione diffusa, anche tra autorevoli medici e scienziati, secondo cui alimen­tare e idratare un malato in stato vegetativo è una forma primaria di sostegno vitale e non una terapia in senso stretto, avrebbe dovuto indurre tutti (e i giu­dici di Cassazione in primo luogo) ad adottare un criterio interpretativo restrittivo e non estensivo dell’articolo 32, 2° comma, della Costituzione, che riconosce sì al paziente, come ormai a tutti è noto, il diritto di rifiutare trattamenti sanitari coercitivi, ma non gli dà il diritto di disporre della propria vita.
  Continueremo a sentirci ripetere che con questa sentenza si è reso omaggio alla volontà di Eluana. A parte il fatto che la Cassazione ha ritenuto accettabili, per fornire la prova di tale volontà, testimonianze e indicazioni sullo stile di vita della povera ragazza che sarebbero ritenute risibili ove si dovesse accertare una volontà testamentaria di tipo patrimoniale (ma la vita non conta più del denaro?), si deve instancabilmente ribadire che l’autodeterminazione non può avere rilievo quando si concretizza per una scelta irreversibile come quella della morte.

È la vita, infatti, e non la morte l’orizzonte nel quale si colloca il diritto. Se diciamo no alla pena capitale, non è perché riteniamo che non sia possibile che esistano criminali che la meritino, ma perché è atroce che attraverso una condanna giudiziaria il diritto si faccia strumento di morte.

La Cassazione, probabilmente con serena inconsapevolezza, a tanto invece è giunta. E ancora. Confermando che al padre di Eluana va riconosciuto il potere di ordinare la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione della figlia, la Cassazione ha alterato irrimediabilmente la figura del tutore, cioè di colui cui il diritto affida il compito di tutelare soggetti fragili, deboli, incapaci, inabilitati, interdetti, alla condizione però di agire sempre e comunque nel loro esclusivo interesse. Condannandola a morire di inedia, il tutore non solo sottrae a Eluana il bene della vita, ma soffoca ogni sia pur minima speranza di poter fuoriuscire da uno stato, come quello vegetativo, che non a caso la scienza definisce 'permanente', non 'irreversibile'.

Né va sottaciuto il fatto che, con la sua decisione, la Cassazione ha contribuito a offuscare il concetto, già in sé estremamente complesso, di accanimento terapeutico, inducendo l’opinione pubblica a ritene­re ciò che non è, cioè che l’assistenza prestata a Eluana, per consentirle di sopravvivere, fosse futile, sproporzionata, indebitamente invasiva, caratterizzata dall’uso di tecnologie sofisticate. Non è così che si rende omaggio alla verità.

Ma forse l’esito più devastante di questa sentenza sarà quello simbolico: essa avallerà l’opinione aberrante secondo la quale la sospensione dell’alimentazione sarebbe giustificata dal fatto che, in quanto preda di uno stato vegetativo persistente, Eluana avrebbe perso la propria dignità.

È un messaggio devastante, oltre che colpevolmente umiliante per i tanti altri malati in stato vegetativo (e per le loro famiglie). Nessuna malattia, nemmeno la più grave, può erodere la dignità dell’uomo, né sospendere i suoi diritti fondamentali o incrinare il suo diritto alla vita. Che il signor Englaro, e con lui i magistrati che hanno avallato le sue richieste, abbiano perso questa nobile e antica consapevolezza, prima che suscitare critiche o sdegno suscita un profondo dolore.
 

 

 
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